Come la scuola è diventata un’azienda
di Francesco Provinciali, Start Magazine
La “buona scuola”, quella dei dirigenti “sceriffi” (e poi ‘capitani della nave’) e dei progettifici, della proliferazione di acronimi, neologismi e anglicismi, dove le formule prevalgono spesso sui contenuti, ha fatto scivolare la scuola verso una impostazione con organigrammi in stile aziendale. L’intervento di Francesco Provinciali, già dirigente ispettivo MIUR e Min. P.I.
‘Per una maggiore trasparenza, efficienza ed efficacia nel monitorare i progetti previsti dal PEI/PTOF si chiede a ogni docente/team/CdC /GLO di compilare il FORM al seguente link’.
Ecco l’incipit di una circolare inviata dal dirigente scolastico ai docenti, che fa riferimento ad un adempimento atteso in corso d’anno. Un tempo i direttori didattici e i presidi organizzavano incontri con gli insegnanti allo scopo di focalizzare il piano di lavoro, le metodologie, gli obiettivi educativi ed erano essi stessi in grado di offrire indicazioni, di consigliare, ascoltare le problematiche emergenti nella gestione della classe e dei singoli alunni, che stavano al centro degli impegni di tutti. In genere queste riunioni erano utili, i docenti potevano esprimersi in un clima solitamente colloquiale, commisurando i programmi nazionali di studio con la progettazione dagli stessi utilmente declinata nel proprio ambito professionale. I capi d’istituto – provenendo dai ruoli magistrali – custodivano un’esperienza didattica che prevaleva sulle incombenze burocratiche ed erano una guida per i propri docenti.
Con l’introduzione delle procedure collegiali, della sperimentazione didattica e dell’aggiornamento attraverso i decreti delegati del 1974 la scuola si era aperta al territorio e alle logiche della programmazione, mentre con la legge 517/1977 – scritta da tecnici competenti e con una forte carica innovativa – temi nobili come il diritto allo studio, l’integrazione degli alunni disabili, la libertà di insegnamento conferivano un’aura di grande fervore pedagogico al sistema formativo. Non si indulge a nostalgie del passato ma commisurando quel contesto educativo al presente si nota un incremento smisurato degli adempimenti burocratici e un cambiamento nei temi prevalenti e negli stessi stilemi linguistici e comunicativi, interni ed esterni.
Un passaggio lento ma inesorabile verso una impostazione gerarchizzata e sincopata, con organigrammi in stile aziendale di cui dobbiamo esser grati ad una malintesa gestione dell’autonomia scolastica e ad una verticalizzazione delle relazioni professionali introdotte dalla riforma della cd. “buona scuola”, quella dei dirigenti “sceriffi” (e poi ‘capitani della nave’) e dei progettifici, della proliferazione di acronimi, neologismi e anglicismi, dove le formule prevalgono spesso sui contenuti.
I miti dell’efficienza-efficacia e l’ossessione della privacy e della trasparenza finiscono per condizionare le relazioni interne e verso le famiglie: bisogna progettare, compilare moduli, rispondere a test, partecipare a riunioni con odg smisurati e pletorici dove non si dialoga più, basta rispondere il giorno dopo ‘approvo, non approvo, mi astengo’. Quanto di tutto ciò che si fa incida sulla qualità sostanziale della didattica non è dato sapere poiché il controllo tecnico è stato sostituito da un’accomodante ed autoreferenziale autovalutazione, i registri cartacei da quelli cripticamente digitali e così il cerchio si chiude con un incremento di impegni prevalentemente fuori dall’aula a cui non corrisponde un tangibile miglioramento della effettiva qualità del servizio scolastico, solitamente stigmatizzato nel grado successivo degli studi: “cosa possiamo fare se ereditiamo studenti-somari?”.
In realtà questa scuola delle sigle e delle formule non piace molto a chi ci lavora (dai dirigenti oberati di responsabilità ai docenti vessati dalla burocrazia) anche se ha i suoi estimatori, specialmente attinti tra i fanatici delle nuove tecnologie, dove gli acronimi, i codici alfanumerici, le password e le username prendono il posto di un testo scritto lineare, intellegibile, interlocutorio. La corsa alla digitalizzazione e all’abuso dei linguaggi informatici impoverisce il lessico della scuola in tutti i suoi contesti comunicativi interni ed esterni e vanifica la ricchezza della dimensione colloquiale e relazionale.
Alla stregua di quanto accadrebbe nei concorsi pubblici per l’accesso ai ruoli professionali della scuola, se malauguratamente e definitivamente i quiz sostituissero la trama di un tema sintatticamente corretto e semanticamente descrittivo, in grado di far interagire tra loro significati e significanti, di dare un senso compiuto alla sua stesura, di esplicitare una narrazione.
Questa deriva culturale minimalista sta dilagando e riguarda sia i docenti che i loro alunni, cambiano i parametri del merito e dell’eccellenza, il livellamento verso il comune denominatore della mediocrità non sostituisce certo il perseguimento del diritto allo studio e dell’uguaglianza delle opportunità di partenza e di arrivo. Ma nemmeno integra la pratica della libertà di insegnamento poiché la consuetudine didattica si accomoda sull’omologazione anziché stimolare la creatività.
Girano molti sedicenti esperti in questa nuova scuola ma in genere si tratta di persone che si sono stancate di insegnare e dirottano verso più miti compiti: fare counseling, tutoring, mastery learning. Sono quelli che sostengono da anni (applicando la regola a sé stessi) che leggere (cioè comprendere), scrivere (cioè esprimersi) e far di conto (cioè misurare e commisurarsi) non servono più perché bisogna aprirsi al nuovo e alla molteplicità dei saperi e dei linguaggi.
Tutto diventa implicito, superfluo e scontato: infatti vediamo i risultati.