Ma in classe i voti sono importanti
di Paola Mastrocola, La Stampa
L’aria nuova a scuola è di abolire i voti. È un venticello che spira da un po’ di tempo, e da cui molte scuole ormai si lasciano portare. L’ultima è il liceo scientifico Bottoni di Milano, che sperimenta l’abolizione della pagella del primo quadrimestre. Il voto produce ansia, stress, impedisce uno studio sereno e disinteressato: questa è la motivazione. Con le migliori intenzioni, dunque, ispirati sempre più a una scuola del benessere.
Eppure c’è qualcosa di buono nei voti, che vorrei provare a dire e che non c’entra con l’ansia. Semmai c’entra con le paure e le speranze, di cui è fatta la nostra vita. C’entra con i sentimenti. Non siamo macchine, e nemmeno cieli sereni e senza nuvole. Siamo esseri umani, e l’umano che è in noi si misura con la paura, la speranza, l’amore, il desiderio, la vergogna, la fierezza, l’invidia, l’ammirazione, la frustrazione…
Certo che temiamo di prendere un 4 e speriamo di prendere un 8, ma ben venga. I voti, che ci abbattano o ci confortino, contribuiscono alla conoscenza di sé. Per quanto strumenti imperfetti, parziali e approssimativi, ci danno un riscontro, ci fanno da specchio. Abbiamo bisogno di un giudizio esterno per sapere chi siamo e come stiamo lavorando, non in assoluto ma in quel dato momento, relativamente al compito che stiamo svolgendo. Prendiamo un mezzofondista e proviamo a togliergli il cronometro: corre senza sapere in quanti minuti fa tremila metri, si allena al buio, non sa se sta migliorando o no, e il suo allenatore lo guarda da lontano, muto, non lo incoraggia, non lo rimprovera. Va bene sia che corra lento sia che corra veloce. Nessuno stress, solo il piacere di correre e la serenità di non venir giudicato?
Certo che temiamo di prendere un 4 e speriamo di prendere un 8, ma ben venga. I voti, che ci abbattano o ci confortino, contribuiscono alla conoscenza di sé. Per quanto strumenti imperfetti, parziali e approssimativi, ci danno un riscontro, ci fanno da specchio. Abbiamo bisogno di un giudizio esterno per sapere chi siamo e come stiamo lavorando, non in assoluto ma in quel dato momento, relativamente al compito che stiamo svolgendo. Prendiamo un mezzofondista e proviamo a togliergli il cronometro: corre senza sapere in quanti minuti fa tremila metri, si allena al buio, non sa se sta migliorando o no, e il suo allenatore lo guarda da lontano, muto, non lo incoraggia, non lo rimprovera. Va bene sia che corra lento sia che corra veloce. Nessuno stress, solo il piacere di correre e la serenità di non venir giudicato?
Dicono che non si deve studiare per i voti. Certo che no (il mezzofondista corre forse per il cronometro?), dobbiamo studiare perché ci piace, ci interessa, ci è utile. Ma non mi sembra così brutto studiare anche per i voti: in certi casi vuol dire studiare per qualcuno. Quando ci capita di incontrare un insegnante che stimiamo, è possibile che vogliamo studiare (anche) per lui, perché ci apprezzi, ci ammiri. Lo studio è prima di tutto relazione con l’altro, è scambio, restituzione reciproca. Quindi è anche desiderio dell’altrui approvazione. Se ci fosse solo l’interesse astratto per una materia, tanto varrebbe starcene a casa sui libri da soli, mirabilmente autodidatti. E poi, la pagella ci mette in relazione col tempo, regalandoci il dono dell’attesa. La aspettiamo per mesi, e quando arriva è sempre una sorpresa. Magari abbiamo preso voti altalenanti: un 7, un 5/6, un 8, un 5… La media matematica è un 6 e mezzo, ma non sappiamo se l’insegnante ci abbasserà a 6 o ci alzerà a 7. Questo non è stress, è attesa, è speranza, è timore, è desiderio. Per questo dico che dietro i voti abitano i sentimenti, e i sentimenti sono ciò che più ci aiuta a studiare. Se avremo solo 6 in pagella, ci sentiremo incompresi, avviliti. Se avremo 7 ci sentiremo apprezzati, persino amati. Proveremo, a seconda di quel piccolo segno in pagella, una delusione o una soddisfazione.
Ogni voto è una battaglia vinta o persa. Ma è solo una piccola, temporanea, parziale vittoria o sconfitta. Un voto non è un diamante: non è per sempre. Fotografa solo un momento, ci ritrae sorridenti o immusoniti. Dovremmo pensarci come una corrente, non come un punto fermo. Perennemente in moto, mai uguali. Vuol dire che la vita, anche quella scolastica, è in mano nostra: a noi tocca cambiarla. E quando cambiamo un voto in meglio è la felicità. La felicità di passare da un 5 a un 6, ma anche da un 4 a un 8 (tutto è possibile, a scuola). La felicità di farcela, di sovvertire i piani. Sorprenderci, meravigliare noi stessi. Per questo vorrei che non abolissimo le pagelle: perché aboliremmo dalla vita dei nostri ragazzi la felicità, la sorpresa, la meraviglia.
Senza la sofferenza di un 4, non proveremmo l’ebbrezza di un 8. Non proveremmo niente. È su quel niente che dobbiamo interrogarci. Calma piatta all’orizzonte: ci piace questa immagine? Azzerate le paure, ma anche le speranze. Niente fallimenti e niente successi, una vita livellata, una pianura senza fossi, un mare senza scogli. Mai tempeste e mai porti, mai crepacci e mai vette. Mai l’avventura. E non è un caso che l’etimologia di avventura sia la stessa di avvenire: ad-venio, ciò che ti viene incontro, ciò che ti accade, che ti “cade davanti”. E d’accordo che può essere un drago o un principe, ma vale la pena di stare a vedere. Poi, il drago si può sconfiggere, e al principe si può anche dire di no. Ma è la vita in mano nostra, è vivere. Io non ci rinuncerei… Una vita senza avventura è una vita senza avvenire.