LA SCUOLA CINQUANT’ANNI DOPO I DECRETI DELEGATI

da il mulino

Risultato di un percorso di modernizzazione, i Decreti delegati per certi versi incarnarono un passaggio a un’idea più democratica della scuola, per altri furono un appesantimento burocratico

di Francesco Provinciali

Il 31 maggio 1974 furono approvati sei “Decreti delegati” in materia scolastica (che passarono alla storia e alla cronaca della scuola italiana con l’abbreviazione DD) numerati dal 416 al 420, in attuazione della legge delega 30 luglio 1973 n. 477, il cui iter legislativo era iniziato con il disegno di legge n. 2728 del 1970. Successivamente gran parte delle disposizioni dei DD furono raccolte e accorpate nel decreto legislativo 16/4/1994 n. 297. Si trattò della più organica e connotativa legiferazione sul sistema scolastico italiano dopo la riforma Gentile del 1923, peraltro già radicalmente modificata nello sviluppo ordinamentale dalla introduzione della scuola media unificata (legge 31/12/1962 n. 1859) e la conseguente abolizione della scuola di avviamento professionale e con l’istituzione della scuola materna statale (legge 18/3/1968 n. 444).

Si può affermare che la “scuola dei decreti delegati” fu il risultato di un lungo percorso di modernizzazione del sistema scolastico nazionale, iniziato già a partire dai Programmi di didattica della scuola elementare del 1955 e dall’introduzione del modello didattico del cosiddetto “tempo pieno” nel 1971, che inglobavano le istanze della cosiddetta “scuola attiva”, tendente a formare menti critiche e aperte, a definire le finalità formative dell’istruzione di base (“leggere, scrivere e far di conto”) e nello stesso tempo aprendosi alle istanze di una società in rapida trasformazione economica e sociale, dilatando in senso verticale e curricolare il tempo di permanenza a scuola degli alunni, ampliando con ciò l’offerta formativa.

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I Decreti delegati del 1974 scaturirono da un dibattito parlamentare attento alle istanze di democratizzazione e partecipazione partita “dal basso”, coinvolgendo le famiglie e il territorio nella gestione ordinamentale della scuola. Nello stesso tempo furono una sorta di consacrazione giuridica di una spinta sociale che il ’68 aveva radicalizzato, mescolando legittime aspirazioni verso un sistema formativo democratico, inclusivo, aperto alle innovazioni provenienti da una cultura in rapida evoluzione, con una forte contestazione al sistema sociale in senso lato, chiuso e selettivo, verticistico e radicato a privilegi e storture. Chi visse i primi anni della riforma scolastica dei Decreti delegati non poteva non avvertirne il portato innovativo e al tempo stesso la volontà del legislatore di creare un impianto strutturale in grado di recepire le istanze di rinnovamento, di darle ordine e accoglienza, di costituire un modello di scuola aderente ai bisogni del presente ma anche in grado di durare nel tempo costituendo un assetto istituzionale solido e partecipato, definito in quanto a ruoli e funzioni, articolato all’interno degli istituti attraverso l’istituzione degli organi collegiali e aperto alle relazioni con il territorio.

Da allora nulla è come prima nelle scuole, anche se questo disegno ha impattato con la fagocitosi politica che vedeva una ghiotta occasione per introdursi nei meandri scolastici con la mentalità delle partizioni partitiche e delle competizioni ideologiche sottese, andando oltre il mandato del legislatore, fino a condizionare la stessa libertà di insegnamento o creando attriti con le autorità istituzionali del sistema, esercitando una malintesa e spesso invadente forma di affiancamento e di controllo.

Nei primi anni di applicazione dei Decreti delegati si viveva un’atmosfera sperimentale in cui lo svolgimento delle riunioni dipendeva sia dalla buona educazione dei singoli, sia dalla letterale applicazione delle norme

Gli organi collegiali erano intenzionalmente uno strumento di partecipazione, ascolto, dialogo, confronto tra le componenti scolastiche e quelle esterne, ma spesso l’appartenenza politica finiva per assimilarli a una sorta di “partecipate”, di consigli di amministrazione alla stregua delle emanazioni degli organismi politici del territorio. Nel complesso sono stati un positivo passaggio verso una concezione democratica della gestione della scuola, da un lato, ma altre volte purtroppo hanno rappresentato un appesantimento burocratico che aggravava le già numerose difficoltà di gestione: valga per tutti il paradosso dei tre preventivi per comprare una scatola di penne biro o la farraginosa procedura per autorizzare un’uscita scolastica o per organizzare la festa degli alberi. Il dettato normativo – specie del Decreto del presidente della Repubblica n. 416 in materia di istituzione e funzionamento degli organi collegiali – era ed è tuttora chiaro nella elencazione delle attribuzioni e dei compiti. Tuttavia, non mancavano e tuttora sono presenti negli organismi collegiali, specie a livello di istituto, coloro che fraintendevano dilatando ambiti di competenza all’area didattica, di pertinenza del corpo docente e del capo d’istituto, creando diaspore e derive di lesa maestà.

Nei primi anni di applicazione dei Decreti delegati si viveva un’atmosfera sperimentale in cui lo svolgimento delle riunioni dipendeva sia dalla buona educazione dei singoli, sia dalla letterale (spesso fonte di diatribe, quesiti e interpretazioni) applicazione delle norme. Il decreto n. 416 fu indubbiamente dei sei Decreti delegati quello a maggior rilevanza e impatto sociale. Nel tempo anche gli atteggiamenti più velleitari dovettero fare i conti con le difficoltà oggettive specie in ambito burocratico; alcuni organi collegiali come i consigli scolastici distrettuali vennero soppressi perché all’atto pratico inutili o ininfluenti. Altri, di livello superiore, subirono aggiustamenti in itinere. Da cinquant’anni a oggi hanno resistito i consigli di circolo o di istituto e i consigli di classe e interclasse, quelli sostanzialmente più vicini alle problematiche gestionali della scuola, esercitandosi in tali sedi i rapporti più diretti tra le varie componenti.

Considerando questo passaggio avverto l’esigenza di rilevare come la rappresentanza studentesca negli istituti superiori non abbia ricevuto la legittimazione formale e sostanziale che avrebbe meritato, ovvero di converso erano gli studenti stessi che ne restavano volontariamente ai margini. Se si fosse realizzata la consuetudine a una valorizzazione più accorta della componente studentesca nei consigli di istituto forse oggi – al netto dei comportamenti singoli sempre sfuggenti e imprevedibili – si potrebbe parlare di una responsabilizzazione di ragazzi e ragazze nei confronti dei loro diritti e doveri scolastici, consolidata nel tempo. Se si eccettua il breve articolato del decreto n. 418 in tema di lavoro straordinario, anche i restanti decreti delegati introdussero importanti novità normative. Il decreto n. 417 definiva ruoli e attribuzioni alla componente docente, a quella direttiva e a quella ispettiva: interessante notare che le ultime due erano “funzioni differenziate della funzione docente”: ciò significava che direttori didattici, presidi e ispettori erano parte costitutiva del personale della scuola. Successivamente sia gli uni sia gli altri acquisirono lo status della “dirigenza”, ciò che rafforzava una marcata differenziazione nelle carriere. Per quanto definito dal decreto n. 417 le attribuzioni dei compiti rispettivi erano molto chiare e costituivano un corpo organico compiuto e reciprocamente complementare. Negli anni sono emerse derive di differenziazione gerarchica e funzionale. In particolare presidi e direttori didattici assunsero lo status di “dirigenti scolastici” nel contesto della riforma dell’autonomia scolastica con la legge n. 59 del 15/3/1997, il decreto del presidente della Repubblica n. 275 del 8/3/1999 e la legge n. 107 del 13/7/2015: ogni istituzione scolastica acquisiva personalità giuridica e autonomia organizzativa, didattica, amministrativa e finanziaria ed elaborava un Ptof (Piano territoriale dell’offerta formativa) che era una sorta di carta d’identità che la qualificava di fronte all’utenza.

Iniziò di fatto un lungo periodo in cui sigle e riorganizzazioni degli uffici determinarono una situazione dove prevalevano gli aspetti formali dell’innovazione su quelli sostanziali

Gli ispettori scolastici, prima titolari di “circoscrizioni territoriali”, furono definiti “ispettori tecnici” (centrali e periferici) e allocati presso gli Uffici scolastici regionali, acquisendo anch’essi lo status dirigenziale di seconda fascia. Nel frattempo, i vecchi Provveditorati agli studi (ancora oggi nell’immaginario collettivo prevale questa dizione) furono ridimensionati a Csa (Centri servizi amministrativi, poi Usp – Uffici scolastici provinciali e infine Ust – Uffici scolastici territoriali), frutto del potenziale creativo e della fantasia di parlamentari, ministri e direttori generali. Il decreto del presidente della Repubblica n. 420 a sua volta istituiva il ruolo del personale Ata nelle scuole (amministrativo-tecnico-ausiliario) colmando una carenza, specie nelle segreterie, coperta da volonterosi docenti che si declinavano in ruoli amministrativi.

Iniziò di fatto un lungo periodo in cui sigle e riorganizzazioni degli uffici determinarono una situazione dove prevalevano gli aspetti formali dell’innovazione su quelli sostanziali. All’atto pratico – avendo attraversato quella stagione di rimescolamenti e ridefinizione di nomi, ruoli e funzioni – credo di poter affermare che il risultato portò a un surplus di burocrazia autoreferenziale più che essere funzionale ai bisogni delle istituzioni e della gente. Gli Uffici scolastici regionali – assorbendo di fatto i compiti prima attribuiti ai Provveditorati agli studi (ridotti ad appendici ininfluenti e terminali dell’apparato amministrativo, perdendo la sovra-ordinazione gerarchica sulle scuole autonome) – sono diventati una sorta di “ministeri regionali”, a sua volta il ministero è andato perdendo quel carisma e quella funzione di orientamento e controllo che sono essenziali a definire un “sistema nazionale di istruzione”. Si rifletta su questa deriva, a mio parere confusiva e improduttiva, mentre si lavora a disgregare l’apparato dello Stato con il progetto di “Autonomia differenziata”.

Da parte sua la cosiddetta “buona scuola” ha prodotto una mole smisurata di burocrazia che è andata sommandosi a quella ministeriale, lasciandoci le icone dei “presidi sceriffi” e “capitani della nave”, in un contesto para-militare dove circolari e riunioni aumentano in modo soffocante. La didattica in classe e la libertà di insegnamento sono stati ridotti a meri corollari di contorno. Il decreto n. 419 – infine – introdusse in modo organico i temi della sperimentazione, della ricerca e dell’aggiornamento, ora assorbiti nel Pnrr e dall’armamentario della digitalizzazione, del Metaverso e dell’IA. Ma nonostante le molte incognite occorre credere nello sviluppo scientifico – come indica il Censis – e prender atto dell’inarrestabile autopropulsione sociale.

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