Cresce il numero di studenti con disabilità: troppe diagnosi
Cresce il numero di studenti con disabilità: «Troppe diagnosi a scuola ed eccessiva medicalizzazione». E pochi prof specializzati. Con oltre 338mila alunni con certificazione, il sistema scolastico è chiamato a fare i conti con un trend che continua a crescere nonostante il calo demografico e la riduzione del numero degli studenti.
olleva non pochi interrogativi l’aumento esponenziale e costante delle certificazioni di disabilità nelle scuole italiane. Con oltre 338mila alunni con disabilità, pari al 4,1% degli iscritti, il sistema scolastico è chiamato a fare i conti con un trend che cresce nonostante il calo demografico e la riduzione generale del numero degli studenti. Dietro queste cifre si cela una realtà complessa: un fenomeno che rischia di trasformarsi in una medicalizzazione eccessiva dei bambini e dei ragazzi, alimentando l’isolamento invece che l’inclusione. In questo scenario, dove gli studenti diminuiscono ma aumentano quelli con disabilità, è stato necessario incrementare il numero di insegnanti di sostegno. Osservando la curva storica, dai 335 mila dell’anno scolastico 1960/1961 siamo passati ai 944 mila del 2022/2023 (dati Istat). Il rapporto alunno-docente di sostegno è molto positivo, pari a 1,6, migliore di quello previsto dalla legge (1,2). Tuttavia, 1 insegnante su 3 non ha una formazione specifica e il 12% viene assegnato in ritardo, tema che è attualmente oggetto di analisi presso la Commissione Cultura alla Camera con il decreto scuola n. 71/2024. Quest’ultimo prevede tre principali interventi: l’introduzione di una nuova offerta formativa di specializzazione sul sostegno per ridurre la carenza cronica di docenti specializzati; nuovi percorsi per ottenere più rapidamente l’idoneità al sostegno per chi ha il riconoscimento del titolo svolto all’estero in sospeso; la possibilità di garantire continuità didattica ai docenti con contratto a tempo determinato su richiesta della famiglia, previa valutazione del dirigente e nell”interesse dell’allievo.
Cultura, scienza, educazione: le cause dell’aumento di diagnosi
«Alla radice c’è un’eccessiva medicalizzazione degli studenti», spiega a Open Raffaele Iosa, che è stato maestro, direttore didattico, ispettore scolastico e per anni responsabile dell’Osservatorio Ministeriale sull’handicap. Da sempre in prima linea sui temi legati alla disabilità, Iosa offre una prospettiva critica sull’aumento esponenziale di diagnosi di disabilità nelle scuole. A suo avviso, sono tre i fattori principali che hanno contribuito a questo trend: il cambiamento culturale, l’evoluzione dell’approccio scientifico e una trasformazione delle relazioni educative. «Da un lato, l’idea di salute e benessere è mutata, con un tipo di attenzione alle esperienze di vita dei bambini e alla loro crescita che spesso sfocia in una preoccupazione eccessiva per qualsiasi cosa non vada; dall’altro lato, l’approccio scientifico si è evoluto verso un modello legato ai sintomi più che alla persona, e non dimentichiamoci che ha dato vita a un vero e proprio mercato», spiega Iosa. «Moltissimi dei bambini con i cosiddetti “comportamenti problema” non hanno una natura clinica, ma relazionale ed educativa. Se le relazioni educative nei confronti dei figli si trasformano, come accade sempre di più oggi, nell’idolatria o, al contrario, nella delusione del figlio, si genera un eccesso di attese nei confronti di bambini e ragazzi che, di fatto, poi genera proprio quei “comportamenti problema”».
I rischi: «Studenti eternamente disabili»
Con queste premesse, il rischio dietro l’angolo è che la diagnosi venga percepita dai genitori come «salvifica» per il figlio. Tuttavia, avverte Iosa, potrebbe generarsi un effetto perverso, dove – in alcuni casi – la certificazione rischia di trasformarsi in una gabbia invisibile che limita il potenziale degli studenti. «Dalla mia esperienza e dalle mie ricerche, posso affermare che le certificazioni o le diagnosi tendono a ridurre le aspettative nei confronti dei bambini, anziché aumentarle. Ci si accontenta, creando una sorta di effetto iatrogeno (effetto collaterale dovuto a un errore diagnostico, ndr), dove l’idea che ho di quel bambino, a causa della diagnosi o certificazione, è inferiore a ciò che lui potrebbe realmente raggiungere. Di conseguenza – prosegue l’esperto -, aspettandomi meno da lui, finisco per offrirgli meno, portando molti insegnanti a comportarsi in modo quasi assistenziale. Invece di aiutarli a crescere, li manteniamo eternamente disabili».
Le disabilità più frequenti: cosa dicono i dati
Stando ai dati Istat più recenti, la disabilità intellettiva è il problema più frequente tra gli alunni, colpendo il 37% degli studenti con disabilità. Percentuale che cresce significativamente nelle scuole superiori di primo e secondo grado, raggiungendo rispettivamente il 42% e il 48%. Seguono i disturbi dello sviluppo psicologico (32%), con una prevalenza nella scuola dell’infanzia (57%). Frequenti anche i disturbi dell’apprendimento e dell’attenzione che colpiscono quasi un quinto degli alunni con disabilità, con maggiore diffusione nelle scuole secondarie di primo grado. Meno frequenti le disabilità motorie (10,5%) e le disabilità visive o uditive (circa 8%). Dato significativo è che il 39% degli alunni con disabilità presenta più di un tipo di problema (pluridisabilità), condizione più frequente tra chi soffre di disabilità intellettiva che tocca il 54% dei casi. Quasi tutti gli alunni con disabilità (97%) hanno una certificazione che consente l’attivazione del sostegno scolastico. A questa percentuale si aggiunge una quota marginale di studenti (1,3%) che, pur non disponendo di una certificazione formale, usufruiscono del sostegno didattico. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di alunni in attesa di certificazione o con problematiche borderline, ai quali la scuola decide di dedicare una parte delle risorse disponibili.
Isolamento, non inclusione
La parola chiave che permea tutto questo scenario, ritiene Iosa, è isolamento. «Ogni mattina, tutti i bambini e ragazzi entrano dallo stesso portone di scuola, ma una volta dentro, non vivono la stessa scuola», commenta l’ex insegnante. «Alcuni non vanno nell’aula assieme ai compagni, e proliferano le cosiddette Aule H, luoghi separati dove l’insegnante di sostegno assume quasi il ruolo di guardiano, anziché diventare un ponte di relazione e interazione con l’intera classe», continua Iosa. «Non sorprende, quindi, che molti ragazzi con disabilità siano spesso esclusi dalle feste di compleanno o dimenticati durante le gite scolastiche», prosegue. E, aggiunge l’esperto, è dietro l’angolo il rischio che si torni a un approccio simile a quello delle scuole speciali. «Certamente ci sono casi virtuosi in cui gli istituti riescono a promuovere un’inclusione positiva, ma nella maggioranza dei casi ci si muove nella direzione opposta. E questo aspetto diventa particolarmente critico nella scuola superiore, dove i ragazzi affrontano l’adolescenza e la relazione con gli altri è ancor più centrale».
La proposta di legge
L’ex coordinatore dell’Osservatorio handicap nota con preoccupazione il silenzio del mondo clinico sulle ragioni dell’esplosione delle certificazioni di disabilità. «Non c’è ricerca», afferma perentorio Iosa. «Il tipo di terapie che vengono proposte sono significative: è quasi tutto terapeutico e poco educativo. Si parte dai deficit anziché dai potenziali delle persone», osserva. Per invertire la rotta della medicalizzazione e rompere l’idea del «sostegno isolante», Iosa ha lavorato a una proposta di legge, assieme a un gruppo di esperti di inclusione scolastica, per l’«Introduzione della cattedra inclusiva». La proposta prevede che, entro sei anni dall’entrata in vigore della norma, tutti i docenti incaricati su posti comuni dedichino una parte del loro orario a incarichi di sostegno, e viceversa. L’obiettivo è attenuare il ruolo dominante dell’insegnante di sostegno sull’alunno con disabilità e coinvolgere maggiormente gli insegnanti comuni e, di conseguenza, la classe.
Un fenomeno non (solo) italiano: le origini negli Usa
L’aumento delle certificazioni di disabilità non è un fenomeno (solo) italiano. Nasce su spinta degli Stati Uniti e ha poi esteso la sua influenza anche in Europa. Nell’anno scolastico 2022-23, gli studenti americani con disabilità tra i 3 e i 21 anni, beneficiari dei servizi dell’IDEA (Individuals with Disabilities Education Act, la legge che negli Usa garantisce un’istruzione pubblica gratuita e adeguata per gli alunni con disabilità), sono 7,5 milioni, pari al 15% degli studenti delle scuole pubbliche. La disabilità più comune è rappresentata dai disturbi specifici dell’apprendimento, che riguardano il 32% degli studenti, seguiti dai disturbi del linguaggio o della parola (19%), altri problemi di salute (15%) e autismo (13%). Gli studenti con deficit dello sviluppo, disabilità intellettive e disturbi relazionali rappresentano rispettivamente il 7%, 6% e 4% degli studenti con disabilità. Problemi di udito, visivi e sordocecità sono solo il 2% circa.
Insegnanti di sostegno: pochi specializzati, tanti precari
Il tema della disabilità a scuola è complesso e stratificato. Se da una parte c’è preoccupazione per l’aumento degli studenti diagnosticati, dall’altra sembra esserci una nota positiva nell’incremento del numero di insegnanti di sostegno. Ma, a questo proposito, Manuela Calza della Flc Cgil mette in luce a Open una questione cruciale: «Il vero problema sono le condizioni in cui lavorano questi docenti, che soffrono di tassi di precarietà molto alti. Sul sostegno, un insegnante su due è precario». Precarietà in parte dovuta al fatto che molti posti sono in deroga, cioè aggiunti all’organico di diritto e coperti con contratti annuali. C’è poi, aggiunge la sindacalista, «una grave carenza di insegnanti specializzati, impedendo assunzioni a tempo indeterminato per coloro che potrebbero averne diritto». I dati Istat confermano: più di 67mila insegnanti di sostegno (30%) sono selezionati dalle liste curricolari, quindi senza una formazione specifica. Fenomeno più frequente al Nord, dove il 42% degli insegnanti curricolari svolge attività di sostegno, rispetto al 15% del Mezzogiorno. Calza spiega che il problema risiede innanzitutto nel sistema di formazione iniziale, che non riesce a soddisfare le esigenze del sistema scolastico. «I corsi di specializzazione per il sostegno sono a numero chiuso, con contingenti inadeguati e una distribuzione regionale inversamente proporzionale al bisogno reale. Inoltre – conclude – i costi di questi corsi sono elevati, vanno dai 3 ai 4 mila euro all’anno, scoraggiando molti insegnanti dal proseguire questa strada».