A chi giova la falsa “inclusione” di quella didattica a crocette?
di Patrizia Marchegiani
La didattica con verifica a risposta chiusa, apparentemente più inclusiva, umilia l’io. Però tutto o quasi va in quella direzione, perché?
Perché se tra insegnanti ci diciamo di continuo che il nozionismo non ci piace, mentre ci piace tanto la didattica per concetti, come pure ci diciamo che aspiriamo a formare lo spirito critico nei nostri alunni, poi però, nella prassi didattica, persino nelle materie umanistiche, quelle che forse più di altre dovrebbero “aprire” – e non “chiudere”! – ad interpretazioni diverse, al confronto, a differenti rispecchiamenti e scoperte nei testi, continuiamo invece a propinare (anzi “somministrare”) asfissianti verifiche con crocette e paroline mancanti da inserire in quello strozzante spazietto vuoto? – paroline che devono essere “quelle” e, mi raccomando, solo esattamente “quelle”, come nel “gioco dell’impiccato”, altrimenti perdi un punto per il calcolo oggettivo del voto? Perché continuiamo a mettere sotto il naso dei nostri ragazzi – sempre più annoiati – soffocanti quiz di storia o letteratura preconfezionati, del tipo “Scegli la risposta giusta tra a, b, c, d”, “Spunta la casella vero o falso” et similia?
L’altro giorno, aiutando mio figlio a svolgere i compiti, io stessa, insegnante di lettere, mi trovavo difficoltà ad azzeccare il termine mancante da inserire nell’esercitazione di storia del suo libro: “I monaci lavoravano per l’ ____”, articolo apostrofato e spazio. “Per il sostentamento?”, “per vivere?”, “per provvedere al proprio mantenimento”? No, niente di tutto questo: c’era la elle apostrofata (la risposta giusta era “l’autosufficienza del monastero”).
Alcuni sostengono sia più inclusivo. Si tratta di un “modo guidato e più semplice” per fronteggiare studio e verifiche. Affrontare le varie tematiche in un modo ampio, che ne renda la complessità e poi, di conseguenza, verificare con domande aperte o dibattiti e confronti “sarebbe indubbiamente più difficoltoso, e i più deboli si perderebbero”. Con i quiz, peraltro, anche chi non sa nulla, magari tirando a caso, ha pur sempre il 50% di probabilità di mettere la crocetta al posto giusto e un quarto di possibilità di farlo nelle domande a risposta multipla.
Eppure io, anche guardando i ragazzi con più difficoltà (anzi, ancor più guardando loro!), sono convinta che questo tipo di procedere li demotivi e li fiacchi tremendamente. Se non coinvolgi la loro vita, la loro persona, la loro esperienza, il loro cuore, se non vai ad intercettare quel “nucleo infuocato di interesse” che c’è in tutti, quell’“io vivo” – e come fai a farlo con la didattica a crocette? –, sono proprio loro, i più deboli, a risentirne di più: quelli, cioè, che nella continua corsa ad ostacoli per rincorrere l’avvicendarsi di sempre nuove asettiche nozioni, faticano maggiormente. Se non afferri il loro cuore, se non intercetti le loro più profonde corde esistenziali, se non incendi quella loro “brace nascosta”, la scuola e lo studio servono solo ad essere odiati.
Dunque, perché continuiamo a chiedere crocette? Io sospetto che lo si faccia perché il “modello Invalsi” ha ormai permeato il nostro modo di valutare e, ancor peggio, il nostro modo di fare didattica. Impoverendola, “sterilizzandola”, depurandola da tutto quel che possa risultare “inutilmente” creativo, esistenziale, interpretativo, complesso, plurivoco, aperto, vitale, “infuocato”.
A voler pensar male, c’è forse anche un’altra ragione. Forse a qualcuno –chissà? – potrebbe pure tornar comodo addestrare i nostri ragazzi a leggere e ripetere pari pari, come automi, per poi mettere crocette al posto atteso, silenziando di fatto il loro io: una generazione ammaestrata a replicare, alla lettera, pedissequamente, cuore annichilito, tutti uguali, stesse parole, unico gregge. Chissà?
In ogni caso, per quel che mi riguarda, io continuo ad essere certa che l’unico modo di rendere motivante e sensato lo studio resta quello indicato da Machiavelli, nella celebre lettera a Francesco Vettori, 10 dicembre 1513: “Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro”.