Dalla società senza padri alla società senza figli

di Francesco Provinciali, Start Magazine

Perché dunque siamo senza eredi? Perché per la prima volta nella storia non abbiamo nulla da trasmettere e nessuno che voglia o possa raccogliere la cultura tramandata. La recensione di Francesco Provinciali del libro “Senza eredi” di Marcello Veneziani (Marsilio editori)

C’è un trait d’union, una continuità tematica e di riflessione che lega “La cappa” con questo corposo saggio che Marcello Veneziani ha intitolato “Senza eredi”. E dobbiamo esser grati oltre all’autore anche alla casa editrice Marsilio che con i suoi tipi ha dato un seguito di coerenza alle due opere.

Essere opinionisti in un mondo di polverizzate ed effimere opinioni potrebbe portarci a confondere il tutto con il niente. Non è il caso di Veneziani, il quale – volendo sostanziare il radicamento culturale che sostiene il suo ragionato incedere nell’esplorazione delle identità perdute in una società rarefatta e deprivata di fondamenti culturali rassicuranti – si appoggia ad una raccolta di sessantaquattro (più alcune citazioni fuori paragrafo) “miniature di saggi, succinte biografie e profili non convenzionali” (taluni criticamente sconvenienti).

Possono sorprendere gli accostamenti della sequenza, persino gli autori scelti: ci sono assenti illustri ma anche autorevoli presenze e ciascuna risulta eloquente e significativa rispetto alla traccia che le unisce, poiché essi stessi non hanno più eredi. C’è una tesi di fondo che Veneziani esplicita affinché sia dimostrata: viviamo in un mondo che ha perso gli ancoraggi con il passato e le tradizioni culturali specialmente quelle legate alla civiltà letteraria che tramonta per assenza di confronti, paragoni, circolazione di idee, letture incrociate. Aggiungerei soprattutto per il venir meno di coloro che sono stati i Maestri del pensiero, gli interpreti più profondi e originali della condizione umana e dei valori universali ad essa sottesi.

Se si spezza il filo della cultura – intesa come eredità verticale ricevuta e trasmissione circolare tra autori e lettori, tra maestri e allievi, prevale una dimensione orizzontale di rimuginamento superficiale di quel che resta, ove sia pur considerato. Le interpretazioni cedono il passo alle opinioni, i maestri di oggi sono gli influencer che diventano l’iconografia e la plastica rappresentazione di un nichilismo che non assomiglia neanche un poco a quella filosofia di pensiero che lo aveva generato agli inizi del ‘900: oggi il nichilismo 4.0 si fa negazionismo senza alternative, un passatempo, dunque, inconcludente e surrettizio, un riempitivo evanescente del nulla, i nuovi profeti condannano le guerre ma riempiono i proseliti di patacche, chiacchiere e distintivi, detestano i tiranni ma dispensano dall’alto investiture di fedeltà, giudicano con alterigia e supponenza, accreditano miscredenze e gareggiano nelle standing ovation e nei follower.

Le allegorie multicolori prevalgono sulla realtà, vissuta generalmente con distaccato disincanto come una sorta di alternanza di abitudini prive di retropensiero: siamo saturi di cronaca e ricchi di metafore riciclate ma poveri di storia e di immaginazione, appiattiti in un mercanteggiamento di apparenze e interessi che ci vuole trasparenti ma strenui custodi dei fatti nostri, buonisti e giustizieri, accoglienti ma inospitali, aridi e sentimentali, nostalgici e futuristi, inclusivi ma indifferenti, smemorati ma rancorosi. Perché dunque siamo senza eredi? Perché non abbiamo nulla da trasmettere e nessuno che voglia o possa raccogliere la cultura tramandata: ciò accade forse per la prima volta nella Storia perché stiamo assistendo al transito dalla società senza padri alla società senza figli. Ci sono diversi profili di riscontro a questa affermazione: sul piano demografico, su quello antropologico, su quello generazionale, su quello infine del testimone che dovrebbe passare tra chi lo consegna e chi lo raccoglie ma che non c’è. Il gesto di Ettore che eleva il figlio al cielo affinché riceva la protezione degli dei non è iconografia di questo tempo, dissacrato da spaventosi parricidi, femminicidi e minoricidi.

Il presentismo asfissiante dell’hic et nunc assorbe e vanifica la memoria del passato e le immaginazioni del futuro (non è un caso, mi preme annotare, che Papa Francesco da tempo insista sul dovere di coltivare la virtù della speranza). Mi piace qui ricordare la potente espressione di Sant’Agostino: i Maestri sono come le montagne perché le montagne sono le prime ad indicare l’apparire, il sorgere del sole. Ma se vengono a mancare ecco incombere minacciosa l’ombra dell’oscurantismo e la stessa vita sociale deprivata da valori di solidarietà, condivisione, perseguimento del bene comune e finisce per assomigliare ad una sorta di caravanserraglio di “contemporanei” senza antenati né posteri, uniti solo dal vago domicilio nella stessa epoca, non consorti, non amici sinceri, al più coinquilini occasionali.

Il solipsismo emozionale genera inaridimento interiore: non è un caso che Veneziani includa Giuseppe De Rita tra i pensatori più autorevoli di questo tempo e lo fa omaggiandolo di un “tenace continuismo” in un mondo di assenze, abbandoni e indifferenze. È proprio il Censis uno dei più autorevoli interpreti delle derive socio-culturali di questa epoca che non ha eredità da trasmettere, soffrendo inconsapevolmente di un appiattimento – ancor più – di un avvitamento ad un presente autoreferenziale e inconcludente. Viviamo solitudini siderali nelle metropoli abitate da milioni di eremiti – come scriveva Eugenio Montale – ma anche nelle piccole realtà sociali, perché la comunità è diventata una sorta di rassemblement di monadi isolate tra di loro: iperconnesse con la tecnologia e ipoconnesse nei sentimenti, perdendo il senso e la misura delle emozioni, talvolta preda di paure recondite, come ha notato Vittorino Andreoli che ad esse attribuisce anche le forme di violenza montante ma non più sorprendente.

È un mondo disincantato ma sordo, ovattato ma chiassoso che elude il silenzio e la riflessione, forse perché tra le cose non ereditate il pensiero pensante è l’orfano più illustre. Chi proponesse oggi la querelle culturale sulla ‘parola nuova’ tra Tolstoj e Dostoevskij sarebbe un eremita fuori dal tempo: solo nella parte finale del libro Veneziani approfondisce l’influenza delle tecnologie sull’impoverimento linguistico e cognitivo. Forse Martin Heidegger o Walter Benjamin o più recentemente e oggi stesso – con forza – Umberto Galimberti ne avrebbero fatto la chiave principale di lettura per spiegare l’impoverimento culturale e il solipsismo comunicativo e relazionale del nostro tempo. Ma Veneziani “recupera” il tema e lo fa alla grande: di fronte alla pervasività ripetitiva e meccanicistica degli algoritmi e delle tecnologie … perché non lo preoccupa tanto l’avanzamento dell’intelligenza artificiale quanto piuttosto l’arretramento dell’intelligenza naturale.

“Non è possibile un pensiero nuovo perché non è possibile un pensiero, non è più verosimile, non suscita alcun riflesso reale”. A un pensatore chiediamo invece di portarci nel cuore della vita, per aiutarci a capire chi siamo e dove siamo diretti, tra libertà e destino.

 

.

Condividi questa storia, scegli tu dove!