Elogio dei reietti

di Martina Bastianello, Roars

I Magnifici 7

  1. La Lezione frontale

  2. Il Libro-libro

  3. I Contenuti (volevo solo insegnare i Fenici…)

  4. L’Alfabeto

  5. Distillati

  6. La Cartina muta

  7. W “I Mona”! (senza certificazione)

 

1. La Lezione frontale.

Non potevo che iniziare da Lei. Da oltre vent’anni – da quando, in buona sostanza, ho iniziato le prime supplenze – Lei viene bistrattata, offesa, vituperata, considerata fonte di sciagure: alla stregua della bella Elena – responsabile d’aver scatenato la guerra di Troia – la Lezione frontale pare abbia inflitto infiniti lutti… non agli Achei, questa volta, ma a generazioni di sfortunati studenti. Sembra che tutti, insomma, siano convinti che sia arrivato, oggi, il momento di liberarsi definitivamente della scellerata: la maggioranza dei genitori, dei docenti, dei formatori, degli opinionisti, delle aziende e dei rappresentanti del Miur forma un nutrito quanto deciso plotone di esecuzione.

Ma con chi/con cosa se la prende chi se la prende con la Lezione frontale?

“Se la prende con un fantoccio, uno spettro, un nemico costruito appositamente per poterlo combattere”, mi sono risposta – sempre più allibita – nel corso degli anni. Forse è arrivato il momento di condividere la mia risposta, sperando che ad essa si unisca un nutrito coro di risposte affini.

Primo: la Frontalità è un valore che solo i valorosi riconoscono come tale e proteggono. Per stare di fronte a qualcuno (agli studenti, nel nostro caso) ci vuole coraggio perché ci stai solo, tutto intero, con quel poco che ti sembra di sapere e quell’oceano di non-sapere che ti circonda e preme da ogni lato. Ci stai con il tuo corpo (faccia struccata, calvizie incipiente, rughe, pancetta da birra, calze smagliate, patta semiaperta…); ci stai con la tua voce che è lo strumento (scordato, stridente, tremulo, sfiancato) che racconta storie, snocciola dati, propone metafore, presenta teorie, richiama, rimprovera, elogia, interroga, grida e sussurra. Ci stai con la stanchezza della settimana sul groppone, con i guai familiari strizzati nel sottoscala della mente, con le aspettative e le frustrazioni e tu, tutto intero – quello che sei e quello che fai – tenti l’Impossibile: lasciar andare qualcosa di tuo sperando che qualcun altro, di fronte a te, lo acchiappi.

Secondo: insegnare è un atto intimo e, insieme, pubblico; insegnare è un’azione impossibile: come se tu fossi seduto sulla sponda di un torrente agitato e, sulla riva opposta, di fronte a te, si trovasse – stravaccato e perennemente distratto – lo studente. Tu prepari la tua barchetta di carta, la confezioni con cura, stiri le pieghe, ricopri i bordi con la cera affinché la barchetta resista all’acqua, calcoli la forza della corrente, la direzione da dare, il modo in cui effettuare il lancio e poi… apri la mano e lasci andare. Che la barchetta attraversi il torrente e arrivi più o meno integra dall’altra parte, che lo studente la afferri (magari con una zampata rabbiosa) è, in ultima analisi, un miracolo. Bisogna proprio essere matti per ostinarsi a provare: ogni giorno, ogni ora, tra i gorghi che attraversano l’aula, i corridoi, le palestre, le mense, i cortili, i teatri, i pullman, i cessi…

Terzo: a chi dice (tanti, da tanto tempo) che la Lezione frontale è passività che induce passività, dico: vi sbagliate di grosso, cilecca completa! Non c’è nulla di passivo nello stare, tutti interi, gli uni (docenti) di fronte agli altri (studenti), nel tentare di dire, mostrare, condividere… di lanciare la nostra barchetta, sperando che, in qualche dannato modo, sfiori l’altra sponda.

Dall’altra parte – di fronte a noi – c’è qualcuno che, tutto intero, ci guarda storto, ci ascolta a spizzichi, ci pesa col bilancino, ci giudica spietatamente, qualcuno che deve continuare a guardarci, ascoltarci, giudicarci. Occhi, orecchie, mente, corpo e tutto il resto direzionati verso quello sfigato con uno stipendio che equivale al suo peso sociale. Nello studente che sta  sull’altra sponda non c’è nulla di passivo, come potrebbe? Chi dipinge la Lezione frontale come un travaso di materia inerte da contenitore a contenitore o è in mala fede o è un imbecille (nel senso etimologico del termine): se è in mala fede, lo dobbiamo smascherare; se è un imbecille lo dobbiamo compatire. Ma in nessun caso dobbiamo accettare una rappresentazione fraudolenta della Lezione frontale! Il bambino, il ragazzo, il giovane che acchiapperà (o non lo farà) la nostra barchetta la acchiapperà a modo suo: con un gesto preciso o scombinato, veloce o lento, docile o irriverente… E se ancora, il nostro Avversario, insistesse sulla passività del setting frontale (quanto gli piace sentirsi pronunciare “setting”), esplicitiamo l’ovvio e cioè che nell’Ascolto non v’è nulla di passivo. Ascoltare è un’arte difficile, nemmeno il nostro Avversario pare, infatti, averla appresa.

2. Il Libro-libro.

Fate un esperimento: prendete un testo scolastico qualunque, non importa di quale materia. Se volete che l’impatto sia più forte, consiglio di provare con un testo di storia della primaria, un’antologia delle medie e, infine, un testo di filosofia o di scienze delle superiori. Si ripeterà la stessa situazione (certo, con le debite differenze legate al grado scolastico): facciate coloratissime, immagini o fotografie ad alta definizione, titoli, sottotitoli, mappe concettuali, glossari a bordo pagina, domande-guida che spuntano come i funghi a settembre, frecce, freccette, riquadri, focus, link come se non ci fosse un domani… Risultato? Impossibile, per lo studente (bambino o ragazzo), appoggiare la punta della matita sulla pagina. Tutto è già stato fatto, tutto è compiuto. Lo studente (non so se vi è mai capitato di osservarne uno nell’atto di studiare, io l’ho fatto ripetutamente, ho osservato i miei figli cercando invano di dimenticare che erano i miei figli) sta fermo e guarda le facciate che si trova davanti perché altro non può fare: tutte quelle preziose operazioni che dovrebbero caratterizzare lo studio di un qualsiasi testo gli vengono impedite. L’occhio è guidato (e con esso la mente), la mano è orpello inutile, non resta che – nella migliore delle ipotesi – leggere e ripetere nozioni e passaggi che qualcun altro ha già selezionato, sminuzzato e assemblato nuovamente al posto dello studente. Come emerge, da anni, dalle rilevazioni ufficiali, ma ancor più dall’esperienza dei docenti, è sempre più evidente che bambini e ragazzi sono sempre più in difficoltà a leggere e comprendere un testo, evidenziano inoltre diffuse carenze nel metodo di studio. Se ti insegnano a camminare da subito (e poi continuano) con le stampelle, come si può pretendere che in seguito tu possa farne a meno e correre spedito verso la meta?

Potrà sembrare secondario, ma per me è anche una questione estetica: i testi scolastici sono generalmente brutti. Accozzaglie di macchie colorate, si presentano sovraccarichi; essendo poco puliti non educano alla pulizia dello sguardo (e della mente). Dannosi e brutti. Altro? In effetti sì, c’è dell’altro. Sono pure costosi! Trentasette euro per un volume bruttino e dannoso… Come se andassi dalla parrucchiera, sborsassi ottanta euro per una piega e, uscendo, mi accorgessi di star peggio di prima e di avere pure i capelli rovinati. Immagino la reazione… Eppure non reagiamo (genitori e docenti) quando dobbiamo comprare e usare libri che non ci piacciono, che costano molto e che – questa è la mia convinzione – non fanno bene agli studenti.

Così sto provando a fare senza, senza il libro di testo, non senza la parrucchiera… l’età non lo consente. Ci sto provando con una classe, è una sperimentazione nata dall’insofferenza crescente verso testi scolastici sempre più costosi, sempre più brutti e dannosi. Ho tentato, prima di decidermi, di dialogare con le case editrici (attraverso il loro rappresentanti) avanzando critiche, osservazioni, proposte.: “Eh, signora, oramai vanno tutti nella stessa direzione…”. Questa risposta mi ha convinta definitivamente: bisognava prendere una direzione contraria.

Così, nella mia 3^B, non abbiamo il libro di testo. Inizialmente ero preoccupata, ma, mi pare, ce la stiamo cavando. Durante l’estate ho riordinato e predisposto dei materiali (antologie di testi, sintesi, lessico, schede dedicate ad argomenti o autori specifici…) che ci potessero guidare; ho inserire nell’elenco dei testi in adozione due Libri-libri: immagini e foto zero, solo parole; nessun colore, niente schede, mappe, sottotitoli, riquadri, schemi, link… niente di niente. Deserto. Un classico e un saggio: ascesi pura.

Forse i genitori mi denunceranno, forse i ragazzi mi linceranno, forse mi perderò e sarà un disastro… al momento non è successo niente. E le famiglie hanno speso tra i 15 e i 18 euro in tutto (a seconda dell’edizione del classico che hanno scelto) al posto di 37 euro. Considerando che la spesa per il saggio (10 euro) verrà distribuita lungo il Triennio, mi pare un bel risparmio.

Il Libro-libro è bello. Il Libro-libro ti permette di pensare, di agire. Il Libro-libro costa poco. Bello perché quando lo guardi l’occhio può vagare, leggero, può esplorare da sé il paesaggio, non è costretto da una segnaletica stradale (semafori, insegne, lampioni..) a percorrere un solo itinerario; il Libro-libro non è un despota, è democratico perché richiede e sollecita la partecipazione affettiva del lettore: la mappa del percorso la costruisce chi legge attivando molteplici circuiti occhio-mente-mano e, di conseguenza, sovrapponendo i propri segni, le tracce del proprio lavoro, alla pagina. Il Libro-libro è umile, popolare: ottime edizioni economiche alla portata di tutti.

Valutate voi…

3. I Contenuti

Questi nobili forestieri… Forse dovevo nominarli in compagnia della Lezione frontale dato che – a braccetto con lei – stanno andando spediti verso il paese della Malora. Biglietto di sola andata? Speriamo di no.

Negli ultimi, recentissimi documenti ministeriali (vedi Piano Scuola 4.0) dei Contenuti non v’è traccia. Li ho cercati a lungo, ho chiesto in prestito a mio figlio la sua lente di ingrandimento, ma niente da fare, nemmeno avendo a disposizione la lanterna del cinico Diogene si riuscirebbe a scovarli. Nella Scuola del Futuro ciò che conta è che il docente sia un facilitatore di apprendimenti,  un promotore di benessere, un portatore di leadership digitale, ma che debba insegnare qualcosa pare del tutto secondario.

Non importa che cosa ti eri illuso di insegnare – se Leopardi, i Fenici, l’apparato digerente, il teorema di Pitagora, colorare dentro ai bordi, distinguere destra e sinistra, disegnare in prospettiva, l’Art. 3 della Costituzione… ciò che conta è che tu sappia maneggiare efficacemente le nuove dotazioni digitali e che tu sia aggiornato sulle ultime metodologie didattiche, connesse ovviamente alle dotazioni di cui sopra. Ma a chi mi sto rivolgendo? Al Docente del Futuro, al creatore di storytelling, al mago della gamification, al re della giungla virtuale, all’esploratore dell’Intelligenza artificiale…

Mi sento stordita, cerco altra documentazione, esploro il portale di Scuola Futura, visito i siti web delle aziende  che si sono già attrezzate per fornire il pacchetto “La Favolosa Scuola del Futuro”. Mi viene il magone… si può dire? Non lo so perché non trovo il corrispettivo di “magone” in lingua inglese.

Sento già arrivare, insinuante, l’obiezione: “Ma di che ti preoccupi? I contenuti non sono a rischio, qui si tratta soltanto di innovare gli strumenti, i mezzi attraverso i quali trasmetterai i tuoi amati contenuti…”. La stavo proprio aspettando questa obiezione, con la stessa smania con la quale si può aspettare il bus alla rispettiva fermata dopo una giornata di lavoro (considerando che ho preso la patente a 39 anni suonati, so di cosa parlo).

Rispondo all’obiezione confidando nel fatto che la risposta possa valere – se intesa – per tutti i docenti, dal Nido all’Università: gli strumenti, i mezzi che utilizziamo per mediare i contenuti non sono confezioni intercambiabili, adattabili indifferentemente ad ogni contenuto poiché il mezzo (la forma) sta in relazione intima con il contenuto (la materia). Gli strumenti e gli spazi della scuola plasmano i loro utilizzatori e abitatori, ci plasmano. Danno forma alla nostra esperienza e, in questo caso, plasmano la formazione degli studenti. Non si tratta solo di cambiamenti fisici, di aggiunte strumentali: tutta la progettazione della scuola (offerta formativa, piani di lavoro, obiettivi in uscita, valutazione…) – così è dichiarato nel Piano Scuola –  terrà conto della dimensione digitale e delle nuove metodologie che, nel contesto degli spazi innovativi di apprendimento, dovranno trovar voce. E il tutto On-life! In sintesi estrema: quanto accade e si fa mentre la vita scorre e restiamo connessi ai nostri dispositivi; la pervasività totale tra vissuto reale, analogico e virtuale… cosucce, insomma. Cosucce che precipitano, a cascata, sui contenuti e – simultaneamente – su docenti e studenti. Con quali conseguenze?

Ogni docente, in relazione alla sua esperienza, alla sua formazione, al suo itinerario culturale, in relazione al contesto in cui si trova (grado scolastico, indirizzo di studi, classe…), ma anche in relazione alle esigenze specifiche di alcuni studenti (a volte di uno solo) cerca, di volta in volta, di calibrare il suo insegnamento in modo tale che gli studenti possano portarsi a casa qualcosa. Non esistono ricette preconfezionate, non esiste un Manuale delle Marmotte che ci possa guidare, non esistono mezzi che possano garantire l’apprendimento… Ma mi sto perdendo, troppa foga. Ritorno al punto.

Gli strumenti (soprattutto quelli più potenti) non sono innocenti; noi crediamo di usarli e non ci rendiamo conto del fatto che, mentre li usiamo, loro usano noi: ci trasformano, cambiano il nostro modo di stare al mondo. E tanto più ci cambiano, quanto più li usiamo inconsapevolmente.

Un bambino di 3 anni, di 7 anni, di 10 anni oppure un ragazzo di 13 anni, 16 anni possono – in piena età evolutiva – padroneggiare consapevolmente strumenti potentissimi, dotati di caratteristiche che nemmeno noi adulti conosciamo e siamo in grado di padroneggiare? Uno studente in età evolutiva ha davvero bisogno di utilizzare quotidianamente (oltre che a casa, anche a scuola) tali strumenti per approcciarsi a tutte le materie, lungo tutto il corso dell’anno? Sono davvero queste le priorità formative della scuola? Insisto sul fatto che stiamo parlando di soggetti in età evolutiva[1]: “Sei fissata…”, mi si dirà. Può darsi, ma è anche vero che il disagio emotivo, le difficoltà relazionali, i disturbi dell’attenzione, l’analfabetismo funzionale, i disturbi del linguaggio stanno aumentando… che sia il caso di fermarsi a pensare?

“Le capacità attentive sono un bene finito, prezioso e raro. Nell’economia digitale l’attenzione viene trattata come una merce da scambiare sul mercato o da incanalare nei processi di lavoro. Ma questo approccio strumentale all’attenzione trascura le dimensioni sociali e politiche di essa, cioè il fatto che la capacità e il diritto di focalizzare la propria attenzione sono  condizione critica e necessaria per l’autonomia, la responsabilità, la riflessione, la pluralità, la presenza impegnata e l’attribuzione del significato. Nella stessa misura in cui gli organi non dovrebbero essere scambiati sul mercato, le nostre capacità attentive meritano un trattamento protettivo. Il rispetto dell’attenzione dovrebbe essere collegato ai diritti fondamentali come la privacy e l’integrità corporea, poiché la capacità attentiva è elemento intrinseco del sé relazionale per il ruolo che svolge nello sviluppo del linguaggio, dell’empatia e della collaborazione.”
(L. Floridi, Onlife – Un Manifesto)

Io ho deciso di pormi questo obiettivo: proteggere l’attenzione dei miei studenti; proteggerla dalle continue e massive fonti di distrazione e destrutturazione, dalle occasioni e dagli strumenti che possono depotenziare questa loro preziosissima capacità. Sollecitare lo sviluppo dell’attenzione non significa intrattenere, proprio il contrario!

Temo che ci si stia lasciando portare, spingere dal vento che soffia nelle vele, senza valutare la direzione che la nave sta prendendo: il vento dell’innovazione tecnologica è potente, va riconosciuto, vagliato, soppesato, non subito in maniera irriflessa.

Modificare strutturalmente spazi, dotazioni e strumenti scolastici significa intervenire a gamba tesa su processi delicatissimi, significa incidere sulla natura stessa dei contenuti dato che, lo ribadisco, non è possibile scindere il che cosa dal come. Il numero degli studi che analizza il modo in cui la tecnologia digitale sta modificando l’apprendimento di competenze di base (lettura, scrittura, calcolo), la costruzione di competenze relazionali e l’interiorizzazione dei contenuti specifici delle varie discipline è in crescita e gli esiti di tali studi dimostrano che l’uso delle tecnologie digitali risulta ininfluente o dannoso su studenti grandi e dannoso su studenti piccoli.

Insegnare ad orientarsi nello spazio usando un robottino da comandare oppure uscendo in giardino non è la stessa cosa; insegnare a scrivere con foglio e matita non è la stessa cosa che insegnare a scrivere con la tastiera; insegnare Cartesio impegnandosi ad analizzarne le opere non è la stessa cosa che costruire un game cartesiano con ricompensa finale.

Perché non ne stiamo parlando?

Un ultimo giro di valzer.

Nei più recenti documenti ministeriali, ma non solo, nella maggioranza di interventi pubblici sulla scuola e sulla didattica campeggia una posizione che viene data per assodata: i contenuti, da soli, non bastano più. Per essere innovativi, per catturare l’attenzione, per motivare lo studente, per combattere la dispersione scolastica, per produrre benessere in aula bisogna concentrarsi su altro. Rispetto a questo “altro”: si va dall’arcinota centralità del discente all’attualissima enfasi posta sul ruolo della strumentazione, intesa quasi esclusivamente come dotazione digitale. L’accordo è comune: i contenuti non fanno presa, occorre potenziarli attraverso impalcature metodologiche, procedurali, strumentali.

Possibile che i docenti, la maggioranza dei docenti, non abbia un moto di sconforto (eufemismo) nei confronti di questa postura?

Voglio fare una professione di fede (e chi mi conosce sa quanto possa suonare strana questa dichiarazione): io credo nei Contenuti, credo nel loro valore intrinseco.

Credo che il Teorema di Ruffini, la Tavola degli Elementi, i Cipressi di Van Gogh, i versi di Montale, cinque righe di Calvino, una battuta di Socrate, la Teoria dei Colori, l’Art. 21 della Costituzione e così via possano bastare. Credo nella forza, nella bellezza, nella necessità, nella grazia dei Contenuti e agisco – nei limiti delle mie possibilità – affinché i contenuti della disciplina che insegno siano protagonisti. Non io, nemmeno gli studenti, ma i Contenuti.

“Ragazzi, oggi tocca a Feuerbach”, e Feuerbach sia. Feuerbach deve invadere la stanza, deve saturare l’aula, deve verniciare i muri, appiccicarsi alle dita, insinuarsi negli zaini e nelle teste, annodarsi ai lacci delle scarpe, attrarre come un magnete  il pulviscolo della nostra attenzione. Può bastare Feuerbach da solo, ce la può fare? Io credo di sì. Anzi, credo di dover procedere per sottrazione: lui deve stare in primo piano ed io – non so bene come – devo scomparire, dileguarmi. Ma non solo io, anche gli studenti devono scomparire, proprio questa generazione di “discenti che devono stare al centro”. No, pure loro, per cinquanta minuti, devono stare in disparte, farsi piccoli. Voglio esagerare: gli studenti devono sparire con tutti i loro ormoni, le loro grane, le fragilità, il disagio…

Può darsi che ci faccia un gran bene sparire per un po’, decentrare l’attenzione da noi stessi.

Rovesciando la prospettiva: i Contenuti, insomma, ci possono contenere; siamo noi – narcisi – che abitiamo, respiriamo, ci strutturiamo, spesso senza saperlo, nel loro liquido amniotico perché Ruffini, il Berillo, i Cipressi, i Limoni, il Barone rampante, Socrate e Fedro, Newton e i Padri Costituenti vengono prima di noi, ci attraversano e ci sorpassano.

Eccessiva? Può darsi.

Ma ritorno, da ultimo, al nostro Feuerbach perché da lui voglio riprendere – a mio vantaggio – una sua mossa tipica: qualcuno ricorderà la critica di Feuerbach ai sacramenti; la logica sottesa al sacramento è la logica della consacrazione. Vengono consacrati l’acqua del battesimo, pane e vino dell’eucaristia, l’olio benedetto… ciò che viene consacrato viene reso sacro e, così facendo, si introduce l’opinione che quanto viene consacrato non sia già sacro di per sé.

Ecco, ai Contenuti accade qualcosa di simile: i Contenuti non sono interessanti, bisogna renderli tali. Giordano Bruno non è interessante, devi renderlo tale… sul come mi si suggerisce di renderlo tale, mi censuro. Concludo il giro di valzer chiedendomi: chi, tra i miei colleghi, non è convinto del valore e della potenza che connotano i contenuti specifici della sua disciplina? Non sono già, i Contenuti, per sé stessi e in sé stessi, oggetto del desiderio? Non lo sono almeno per noi docenti?

Se la risposta fosse negativa, nessuna innovazione potrebbe salvarci.

4. L’Alfabeto

Non so se a voi accade lo stesso, ma io ricordo piuttosto nitidamente il momento in cui la mia Maestra ha iniziato ad insegnarci l’alfabeto; le vocali – arrivano sempre per prime – si sono impresse nella mia mente con la forma della sua bocca come un sigillo quando affonda nella ceralacca lasciando la sua impronta. E il suono delle vocali si è inciso sul biscotto della memoria a lungo termine perché, le vocali, lei ce le faceva cantare. Tutti in piedi, petto in fuori, testa alta: “Forte! Aaaaa, Eeeee, Iiiii, Ooooo, Uuuuu”. Ogni santo giorno. Poi, grazie a dio, sono arrivate le consonanti, uno spasso. Personalmente le ho sempre preferite, le consonanti: dal punto di vista grafico e sonoro. Porto un solo esempio: la “S” di strega ha preso casa nella mia mente perché la Maestra Paola la sibilava coprendosi la testa con uno straccio variopinto e mimando la postura ingobbita e inquietante di tutte le streghe del mondo. Lei – la Maestra – diventava per qualche minuto una (S)trega e noi tutti, adoranti, stavamo per una mattina intera a sibilare, sputacchiare, scrivere e disegnare “S” e a raccontarci (s)torie (s)tregate. Nove mocciosi sibilanti. Sì, ho proprio scritto 9. La nostra era una classe speciale; mentre le altre prime sfioravano la trentina, noi no. Con noi c’era un bambino con disabilità e, al tempo, senza maestra di sostegno, si dimezzava la classe. La I^B era la classe meno numerosa della scuola, la classe piccina della Maestra piccina dato che la nostra Maestra era, evidentemente, bassa. Che fosse piccina lo vedevano tutti, che fosse un portento lo sapevamo noi e, a ripensarci oggi, avrebbe dovuto saperlo anche il Presidente della Repubblica. Nove bambini e una Signora Maestra, qui ci scappa il miracolo… e di miracoli ne accadevano tutti i giorni.

La nostra aula era spaziosa, luminosa: una cattedra (con pedana), 9 banchetti, 9 seggiole, una cartina geografica sbrindellata dell’Europa di allora. Ma nelle nostre 4 ore di scuola (eh già, solo 4) succedeva tantissimo senza aver bisogno di supporti speciali o dotazioni avanzate. Nello spazio spoglio dell’aula ci si guardava, ci si perdeva, si alternavano serietà e gioco, chiasso delirante e silenzio cristallino. Noi imparavamo a leggere (miracolo!), a scrivere (miracolo!), a far di conto (miracolo!), a risolvere problemi (miracolo!), a disegnare, cantare, ascoltare, studiare, far crescere fagioli rampicanti su batuffoli di cotone perennemente zuppi… miracolo dei miracoli! E tutto accadeva in una manciata di ore (8.30-12.30), in un’aula spoglia, in una classe che accoglieva un compagno con disabilità e senza sostegno, con bambini che erano tutti figli del popolo. Ricordo bene i miei compagni e pure i loro genitori: Marco e il suo papà meccanico, Viviana e il papà fruttivendolo, Silvia e il negozietto di alimentari che tanto invidiavo, Diego e il papà macellaio che ci portava gli occhi di bue da sezionare… le mamme stavano a casa o facevano le pulizie nelle case di altre famiglie. Vacanze estive trascorse in città, viaggi fantasticati e mai fatti, libri in casa pochi, dialetto veneto come L1. La quantità di informazioni a nostra disposizione era limitata, ma a noi le cose da sapere e da scoprire sembravano tantissime. E tutte quelle cose da scoprire diventavano accessibili grazie alla nostra Maestra che si travestiva da strega, che agitava le braccia come una (F)arfalla, saltava come un (G)rillo e spossata, a fine mattina, pizzicava tutti noi, a turno, come una (Z)anzara.

Amarcord? Forse. Riflessione sul rapporto tra mezzi e contenuti? Anche. Ma vorrei ora invitare a riflettere sul ruolo che gioca la quantità di informazioni a disposizione di chi si sta formando (“ci risiamo con l’età evolutiva…”, mi pare  di sentire). Che ci debba essere una selezione ragionata in ordine alla qualità dei contenuti non credo sia in discussione, ma che ci si fermi a riflettere sul puro dato quantitativo è meno scontato.

Eppure non possiamo preparare una degna crostata se non calibriamo la quantità di burro rispetto agli altri ingredienti: guai al furfante che ti promette una pasta frolla gustosa con 30 gr di burro, assassino è chi ti rifila una frolla di 22 cm di diametro che porta dentro 300 gr di burro.

Oggi, a scuola, si sguazza nel burro: sommersi di informazioni/nozioni/dati accessibili e facilmente reperibili attraverso pc, tablet e telefoni che ci seguono sempre e ovunque, come l’ombra che Peter Pan cerca invano di staccarsi di dosso. Ma l’accessibilità è sempre, indistintamente, un valore?

La facilità e la velocità nel reperire informazioni sono sempre e indistintamente valori? Una sconfinata quantità di informazioni a disposizione del bambino/ragazzo è sempre un valore?

Mi tocca citare, a questo punto, il Grande Tedesco:

“Si è spesso osservato che un’abbondante alimentazione ritarda la fioritura, mentre un’alimentazione moderata o addirittura povera l’accelera.  (…). Finché rimangono da espellere succhi imperfetti, tutti i possibili organi della pianta devono impegnarsi in questa funzione. Se l’afflusso di nutrimento è eccessivo, l’operazione deve ripetersi di continuo e la fioritura diventa impossibile. Invece, sottraendo alla pianta nutrimento, il processo di fioritura è facilitato e reso più breve; gli organi dei nodi si perfezionano, l’azione dei succhi raffinati è più pura ed energica e le parti possono metamorfosarsi in una successione ininterrotta”.
(J.W. Goethe, La metamorfosi delle piante, Jena 1807).

Ecco, la metafora botanica mi soccorre: bambini e ragazzi, oggi, sono ingolfati da un eccesso di alimentazione (mi riferisco alla quantità di informazioni accessibili continuamente) che ne inibisce e ne ritarda la fioritura. Inceppati da un flusso martellante di dati superflui, gli organi dell’apprendimento sono impegnati nella perenne raffinazione di succhi imperfetti e, quindi, faticano a determinare la loro struttura e la loro funzione. Si potrebbe scavare a lungo, seguendo questa direzione, il terriccio fertile di Jena ci porterebbe lontano, ma, al momento, mi fermo qui: Una mente robusta impiega tanta più arte, quanto meno dati ha a disposizione”; sulla scia di questa acuta osservazione andrò ad operare le mie prossime scelte: accessibilità limitata, lentezza nei processi, dati col contagocce. Tiè.

5. Distillati

“Il ricordare non è in nessun modo identico al tenere a memoria. (…). Lo stato d’animo, e ciò che si ricomprende sotto lo stato d’animo, è esso soltanto oggetto del ricordo; e come il vino generoso guadagna al passar la linea (dell’Equatore) perché le particelle d’acqua evaporano, così anche il ricordo guadagna col perder che fa le particelle della memoria…” (S. Kierkegaard, In vino veritas).

Un distillato viene prodotto per condensazione dei suoi vapori durante – per l’appunto – l’operazione della distillazione di soluzioni alcoliche derivate dalla fermentazione di liquidi zuccherini. Il distillato è un liquido liberato dalle impurezze che lo accompagnavano: la graspa, per intenderci, è un distillato di vinaccia.

Il ricordo potrebbe essere un distillato della memoria?

Perché possano formarsi i ricordi da tutto il ciarpame e il groviglio delle cose mandate a memoria, occorre che si crei (chissà come e chissà perché) una circostanza particolare: in chi ricorderà qualcosa, il contenuto del ricordo sarà legato, ricompreso, sotto un particolare stato d’animo. E uno stato d’animo, per formarsi, ha bisogno a sua volta di tanti ingredienti: un tempo significativo, sensazioni vivaci, un rapporto tra chi ricorda e il contesto… insomma, “il ricordo è idealità” e l’idealità, senza voler mancare di rispetto, mi sembra di poterla paragonare al distillato da cui siamo partiti.

Serve pure il ciarpame, ne serve una notevole quantità, ma non è la quantità di cose mandate a memoria che mi preoccupa (veramente c’è ciarpame e ciarpame, ma se apro questa porta rischio di non riuscire più a chiuderla). Ho il timore che oggi, della scuola, bambini e ragazzi possano conservare pochi ricordi e, quindi, non riescano a sviluppare alcuna idealità.

Se non sono immerso, catturato, sprofondato nella situazione che sto vivendo (la lezione, nel nostro caso), non potrò ricordare. Potrò forse memorizzare (per poco o tanto tempo) qualcosa che non risuonerà, non si trasformerà in ricordo significativo, in distillato prezioso.

Non sono certo una paladina della Memoria come depositum, ma temo si stia correndo verso il precipizio opposto… nessuna traccia significativa, pochi ricordi, poche gocce di distillato. A prevalere una brodaglia insulsa, un brusio dal quale non si alza, distinguendosi, alcune voce.

I nostri ricordi più nitidi, luminosi sono ricordi di qualcuno, di una sensazione, di un luogo… difficilmente di un oggetto per sé stesso: se ricordo la mia prima bicicletta è perché, usandola, mi sembrava di volare; se ricordo la lavagna di ardesia della 1^B è perché ci scriveva la maestra saltellando per raggiungere il bordo superiore; se ricordo la flebo gocciolante del post-cesareo è perché, aperti gli occhi, cercavo di capire quando mi sarei potuta alzare per raggiungere mia figlia. Persone, luoghi, sensazioni, azioni giocano un ruolo fondamentale nella creazione dei ricordi e, andando a ritroso nel tempo, i nostri ricordi risultano  incatenati a doppia mandata proprio a questo: persone, sensazioni e azioni e, solo di riflesso, cose. Fino a prova contraria, uno schermo non è una persona, uno schermo trasmette solo alcuni stimoli percettivi (non garantisce un’esperienza percettiva olistica), agisce e ci permette di agire in pochi modi, modi standardizzati e incanalati univocamente.

Le tracce mnestiche che si incidono durante l’infanzia e la prima giovinezza – ormai lo sappiamo tutti –  hanno un peso ed un ruolo determinate nel seguito della vita. Ce lo dicono gli esperti, ma in qualche modo, lo sperimentiamo anche noi.

Senza ciarpame mandato a memoria e, ovviamente, senza ricordi siamo condannati a scivolare sulla breve durata e – appiattiti e privi di profondità – non possiamo sviluppare una prospettiva. Viviamo sparati a tutta velocità grazie al carburante del secolo, l’obsolescenza programmata: che sia programmata pure l’obsolescenza della memoria stessa? Passando di supporto in supporto (poiché il supporto precedente s’è fatto, appunto, obsoleto) le fonti si conserveranno? I ricordi avranno modo di sedimentarsi? Che cosa verrà trattenuto dai nostri mutevoli supporti e da una memoria che si fa sempre più fragile?

Il ricordo-distillato ha bisogno di abbondanti vinacce, delle curve dell’alambicco, di dinamiche lente, della sapienza del distillatore che – lui  lo sa bene – non è padrone di un procedimento, ma parte integrante di un processo.

6. La cartina muta.

Mi sembra quasi poetica, quando la pronuncio, questa espressione: la cartina muta. Appena la nomino mi si presenta davanti allo schermo della mente – austera e un tantino spaventosa – una sezione in bianco e nero della penisola italiana, nello specifico la parte alta dello Stivale: dal confine settentrionale fino – a spanne – all’Emilia Romagna compresa. Una linea nera di contorno, bianco fuori e bianco dentro. Tu dovevi colorare la cartina ricreando e collocando al meglio mari-fiumi-laghi (e l’azzurro non era mai abbastanza, sempre corto e striminzito), montagne e colline sfumando i toni del marrone, zone pianeggianti di placido verde erba. Poi veniva il difficile: con la penna dovevi segnalare gli affluenti, indicare con pallini più o meno grandi le città (capoluoghi e non) e, se eri bravo, ma proprio tanto bravo potevi aggiungere altre informazioni costruendo una legenda: le coltivazioni più diffuse, gli animali allevati, le attività artigianali o industriali, i luoghi d’arte…

Alla fine dell’ora di geografia eravamo sudati e stremati, ma tutti – chi più e chi meno – ci sentivamo Esperti del Territorio. Se il lavoro era riuscito bene a qualcuno, la volta successiva la maestra ci faceva portare la carta velina e via: tutti a ricalcare  quel pezzo di Stivale che Marco aveva rappresentato nel dettaglio, quella Francia che Silvia aveva ricreato alla grande, quella Liguria che Stefano aveva dominato. Le copie su carta velina finivano appiccicate sui nostri quaderni e le cartine – dapprima mute – quanto chiacchieravano allora!

l’Adriatico lo avevi collocato tu al di là della linea nera, sprofondando nel blu e nell’azzurro, inseguendo con l’immaginazione i banchi di sardine mentre con la mano stavi attento a non violare il confine terra-acqua. Premendo col marrone avevi voluto indicare le cime più alte e, sfumandolo col dito umido, le dolci colline (mica avevamo i pastelli da 24 col marroncino e l’ocra). E così via con i nomi di ogni rivolo, i pallini dei centri urbani, i grappoli d’uva del vin veneto. Alla fine la cartina muta diventava un paesaggio familiare, una rappresentazione dell’immaginario collettivo, una mappa per orientarti quando ti fosse capitato di attraversare quel sacrosanto Po.

Il mio figlio più piccolo ha 9 anni e non ha mai avuto a che fare con una cartina muta; temo abbia avuto poco a che fare pure con le cartine in generale. Non conosce a memoria le province della sua regione, i fiumi che la attraversano, i confini… non credo sappia riconoscere la forma della sua regione collocandola adeguatamente sullo Stivale. Non credo sappia indovinare dove finisce la Pianura Padana e diventa altro.

Sa fare una ricerca veloce nel web per recuperare queste informazioni? Sì. Trova da solo tutto quanto gli può servire per rispondermi e neutralizzarmi? Sì, o così potrebbe sembrare.

Ma io gli piazzo davanti una cartina muta e lo sfido. So che lui è orgoglioso, permaloso e reagirà. La prima volta è andata malino, poi è migliorato. Ma non posso e non devo essere io a farlo sudare su cartine mute! Dovrebbe succedere a scuola e io dovrei ritrovarmi in casa un figlio al quale devo solo dare un bacio e preparare un panino (quanto succede quotidianamente, a prescindere dal fatto che il figlio collochi Torino in Abruzzo o in Piemonte).

La scrittura della Terra (del proprio quartiere, della propria città, regione, nazione, continente) è esercizio formativo non sostituibile: scrivendo/disegnando una cartina le si dà voce e quella continuerà a parlarci anche a distanza di decenni. Se, al contrario, smetteremo di riempire cartine (come di fatto sta già succedendo) quelle resteranno mute anche in seguito. Il Territorio – giustamente offeso e risentito – non ci rivolgerà più la parola e le conseguenze non saranno piacevoli né per il Territorio né per noi: estraneità reciproca, disorientamento, disaffezione… non basterà allora aver rinnovato la stesura dell’Art. 9 della Costituzione, paesaggio e territorio saranno perduti. E con loro, disattivato il Gps, pure noi.

7. W i Mona!

So di camminare sulle uova, di rischiare lo scivolone, lo schianto. Il politicamente scorretto può essere conformista tanto quanto il politicamente scorretto, oggi. Ma ci provo lo stesso.

Per noi veneti essere mona[2], sentirsi mona, venir definiti mona, definire gli altri mona è una situazione familiare; in una qualche circostanza, per qualche motivo oscuro o lampante tutti siamo stati, siamo e saremo – fatalmente – mona.

Forse l’essere mona è un trascendentale che gli scolastici han perso per strada, chissà.

Un veneto quando si sente, si autodefinisce o viene definito mona non si offende, nemmeno quando la “A” terminale si allunga come a sottolineare, attraverso la pronuncia, che mona lo sei proprio, lo sei tanto. Non ci offendiamo perché lo sappiamo che capita a tutti di esserlo, che per certi versi non solo lo si è, ma lo si rimane tutta la vita.

Per quanto mi riguarda so con certezza (evidenza cartesiana) che per certe cose e in certe situazioni sono e resterò mona, sapendo di esserlo.

E quando siamo noi a definire mona un amico, un familiare, un collega non lo facciamo con astio. È una presa di coscienza di chi si trova a rendersi conto di essere mona o di avere a che fare con un mona; se, al contrario, avvertiamo una nota astiosa nel mona allora succede che la parola perde tutta la sua leggerezza, tutto il suo umile splendore e – non so se ci avete fatto caso – non prendiamo sul serio l’offesa.

Al momento pare non esistano la diagnosi e la relativa certificazione della condizione del Mona, ma può darsi che da domani tutto cambi!

Certifichiamo tutto, ogni condizione leggermente differente dalla presunta normalità; ogni prestazione appena al di sotto o al di sopra della prestazione ritenuta La Norma viene certificata (ipo o iper che sia). Disturbi, disagi, eccellenze fioriscono come gli Occhi della Madonna a marzo (una madonna veneta, per restare in tema).

Se mi sottoponessero a tutti i test per diagnosticare e certificare disturbi e disagi, è molto probabile che vincerei la medaglia d’oro per il disagio e almeno di bronzo per i disturbi.

Non è ancora standardizzata la prestazione del mona, la sua condizione è sfuggente e io prego (dio, gli dei, la madonna…) che non accada. Se anche i mona venissero certificati che cosa accadrebbe? Tutti con un PDP in quanto mona… ma quali bisogni educativi speciali devono essere riconosciuti al mona? In che modo dobbiamo compensare le prestazioni del mona? Da quali attività lo dobbiamo dispensare? Di quali mirabolanti dispositivi lo possiamo dotare affinché soffra il meno possibile la sua condizione di mona? In che modo il Mondo deve andare incontro al mona per non creargli frustrazione?

Corriamo spediti verso l’orizzonte del Piano Didattico Personalizzato per ciascun individuo (ogni bambino, ogni ragazzo): un percorso specifico pensato affinché corrisponda alle caratteristiche individuali (carenze e potenzialità), eviti ogni frustrazione, gratifichi la motivazione, selezioni mezzi e contenuti adatti al singolo… un’esperienza scolastica parcellizzata, smembrata; un pulviscolo di atomi vorticanti nel vuoto. Una Scuola On Demand.

Ma, al singolo, che cosa viene chiesto? Cosa si pretende dal bambino, dal ragazzo? “Pretendere… ma sei matta? Rischi una denuncia!”; mi pare quasi di sentirla, questa voce, che insinua fondati timori nel mio orecchio. “Tu devi agevolare, andare incontro, semplificare, facilitare, smussare, adattare, favorire, adeguare… Il discente sta al centro – Sole copernicano – e tu, docente (ma ogni adulto, in fondo), devi ruotare conformandoti alle orbite ellittiche dei sui bisogni, attitudini, aspettative”.

Ero partita dal “mona”… mi si potrebbe fraintendere e, il malinteso, potrebbe essere pericoloso.

Non voglio dire che tutti i bambini/ragazzi siano mona (qualche volta lo sono pure loro), ma che noi li trattiamo perennemente da mona e, così facendo, li rendiamo tali.

Li trattiamo da mona senza, ovviamente, esplicitarlo; anche solo dirselo (“sei mona”) fa un gran bene. Invece no, non te lo dico e faccio di tutto affinché tu non lo scopra e affinché tu non possa uscire dalla tua condizione di mona o scendere a patti con questa tua condizione in quel particolare contesto/momento.

Credo di aver esagerato con i “mona”, ma è un nervo scoperto per me: ho il sospetto che sia in atto una colossale truffa e che a perderci, alla lunga, saremo tutti.


[1]  “Un bambino impara nuovi contenuti stabilendo tracce mnemoniche e, quindi, una struttura interiore; viceversa un adulto impara collegando tra loro strutture già esistenti. L’apprendimento del bambino è diverso dall’apprendimento dell’adulto. I bambini sviluppano strutture nuove; gli adulti utilizzano e modificano strutture già acquisite.” (M. Spitzer, Demenza digitale, 2012).

[2]  Scrivo “mona” in corsivo una volta sola, per evidenziare l’espressione dialettale e per mettermi al riparo da eventuali accuse di volgarità. Uso il termine in senso filologico.

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