Fuori i genitori dalla scuola?

di Stefano Rossetti, La scuola e noi

 

Fra i temi più delicati del dibattito pubblico sull’istruzione c’è il ruolo dei genitori nella comunità scolastica. Secondo la messa in scena tipica dell’infotainment contemporaneo, le opinioni cui si dà maggiore rilievo sono quelle più forti (spesso anche ben argomentate), destinate a creare divisione e polemiche. Fra esse, per citare esempi significativi, quelle di Paolo Crepet, Massimo Recalcati e Umberto Galimberti, che arriva a   proporre di abolire la presenza dei genitori nella scuola superiore. Fatalmente, questa rappresentazione sociale esaspera i toni e sceglie esempi estremi, omettendo di precisare che in moltissimi casi i rapporti fra scuola e famiglia sono vissuti come occasioni di dialogo, scambio di punti di vista, e è frequente il caso in cui attraverso questa relazione si risolvono problemi seri e sofferenze personali profonde.

Anche in quest’ambito si riflettono con evidenza le dinamiche in atto nelle trasformazioni che la scuola sta vivendo negli ultimi anni.

In quest’articolo vorrei quindi provare a osservare, attraverso la lente dei rapporti fra scuola e famiglia, alcuni cambiamenti di cui discutiamo spesso in queste pagine, prevalentemente in relazione alla didattica, al metodo, alla visione pedagogica sottesa alle politiche scolastiche. Mi chiederò perché un ideale di partecipazione democratica rischia di trasformarsi in una ennesima occasione di scontro e confusione, nella speranza che una simile riflessione aiuti a capire cosa possiamo fare per evitarlo.

Basta farli giocare

È più semplice comprendere il senso e la direzione delle riforme che investono la scuola, se si tiene presente la progressiva svalutazione che ha investito in Italia il settore pubblico e statale negli ultimi decenni, e di conseguenza la comunità scolastica e chi ne fa parte.

Lo stereotipo dell’insegnante fannullone, ad esempio, è tuttora diffusissimo, con il suo corteggio di tre mesi di ferie e di orari lavorativi ridicoli (le famose 18 ore di chi insegna alla Secondaria). Più in generale, la rappresentazione sociale del docente ne ha offerto per molti anni una caricatura: fatti salvi i registri del mito, i rari esemplari di professor Keating, le più verosimili docenti brevettate in televisione da Littizzetto e Pivetti (e in tempi recenti rispolverate da Alessandro Gassman) in fiction molto “popolari” restituiscono l’immagine di mediocri tuttologi impiccioni (più psicologi e assistenti sociali che insegnanti), tristi e delusi, spesso disponibili a nostalgiche avventure sentimentali. A queste rappresentazioni fanno da contraltare i recenti fenomeni di professori influencer, il più noto dei quali arriva a teorizzare che il futuro della scuola dovrebbe essere il docente “libero da contratto”, che si muove di qua e di là in diverse scuole. Forme differenti di un’uguale distanza astronomica dalla realtà.

Naturale, quindi, che l’opinione pubblica guardi a chi insegna con diffidenza, senza considerare la complessità del lavoro e delle relazioni che implica. Ne nascono atteggiamenti deleteri, come la pretesa di legiferare sulla scuola che accomuna tante mamme e papà. Nei miei cinque anni come rappresentante di classe alle elementari di mia figlia, misuravo un simile atteggiamento nella chat dei genitori, quando operai, professionisti, lavoratori autonomi discettavano seriosamente su compiti a casa, punizioni, voti. Come se, appunto, il mestiere di insegnante fosse alla portata di tutti. Disse ad esempio una mamma casalinga: “Che ci vuole a insegnare le tabelline?”. Frase che ricordava quella analoga ascoltata qualche anno prima fuori dalla scuola dell’infanzia da un nonno imprenditore: “Lo stipendio è fin troppo alto, per queste maestre: i bambini basta farli giocare!”.

Si dirà che un simile atteggiamento è sempre esistito. Ammesso che sia vero, non è però sempre esistita una cassa di risonanza potente come quella offerta da una società dove tante persone parlano tranquillamente di ciò che ignorano. Magari in qualità di Ministri. Quella che Tom Nichols ha definito “era dell’incompetenza” è una forte sponsor degli atteggiamenti di critica infondata e di gratuita offesa al lavoro di chi insegna: come parlare davvero con qualcuno che si sente in diritto di giudicare il tuo lavoro senza conoscerlo?

La scuola, Amazon e l’ospedale

In secondo luogo, può servire riflettere sul bisogno esasperato di attenzione e riconoscimento tipico del mondo contemporaneo, perché ad esso consegue una richiesta sempre più marcata di individualizzazione dei servizi e, fra questi, della scuola. Non da oggi, del resto, l’istituzione segue la logica privatistica di Amazon, in base alla quale tutto si può comprare e tutto si deve ottenere subito, senza fatica né obblighi, perché la soddisfazione del cliente viene prima di tutto. Si spiega così, per esempio, la risposta di una mia allieva, quando poche settimane fa le ho chiesto perché non sarebbe stata presente alla verifica su Foscolo e Leopardi: “La prossima settimana vado a Sharm El Sheik con i miei genitori”. Sullo scaffale c’erano due articoli, un’interrogazione di letteratura su morti che scrivono spesso della morte o una vacanza al mare: nella scuola supermercato, i clienti hanno scelto la seconda. Del resto, l’esempio viene dalla comunicazione demagogica del decisore politico, che lascia credere all’opinione pubblica che, per il bene del bambino fragile, saranno i genitori a dover avallare la scelta del docente di sostegno, non la logica di una graduatoria di merito. Non sarà proprio così, per fortuna, ma intanto si diffondono ignoranza e individualismo (e, sul versante dei docenti, una nuova guerra fra poveri intorno al conseguimento di un titolo) .

Sulla stessa linea, infine, si pone la progressiva medicalizzazione della società e dell’istruzione, descritta in pagine convincenti da Gioele Cima in “L’epoca della vulnerabilità”. Ragionando sui riflessi di questo processo nel mondo dell’istruzione, Cima cita come caso esemplare la vera e propria esplosione delle diagnosi di autismo nelle scuole, e sottolinea come essa sia destinata a seminare il panico nelle famiglie e fra gli insegnanti, a “creare conflitto (anziché collaborazione) fra genitori e insegnanti”, a “complicare i rapporti scolastici”. Più in generale, osserva con atteggiamento fortemente critico la moltiplicazione di sintomatologie psichiche e patologie cognitive: a suo avviso, essa rientra nel progetto di una società fondata sulla fragilità e sull’individualismo, che si realizza anche grazie allo svuotamento di senso di concetti come “classe”, “gruppo”, “mediazione”.

In questa prospettiva si inserisce la nuova semantica della comunità scolastica odierna, in cui ”pianificazione” può diventare sinonimo di “scelta delle verifiche in corrispondenza delle quali assentarsi”; “rispetto” significa “avvertire prima il docente che si sarà assenti”; “sincerità” equivale a “irresponsabilità”, “insufficienza” a “trauma”.

Questo costante sgretolamento del terreno solido sul quale si svolgevano, fino a non molto tempo fa, i colloqui con i genitori contribuisce a rendere la situazione complicata.

C’era una volta il 6 politico

Infine, merita attenzione la diffusa cultura sociale del conflitto di cui abbiamo quotidiani esempi sui social, nei dibattiti parlamentari, nelle trasmissioni televisive dove le persone che la pensano diversamente non solo non vengono ascoltate, ma sono apertamente derise, ignorate e vilipese. La paura del conflitto, a volte, condiziona l’atteggiamento con cui ci si dispone a affrontare i colloqui (non solo quelli con i genitori, ma spesso anche altre occasioni di confronto collegiale). Il desiderio di rimuoverlo determina in molti docenti, giovani o esperti che siano, l’abbandono del ruolo educativo, la resa preventiva, il 6 a prescindere (atteggiamento non meno micidiale del darwinismo valutativo praticato in molte classi). In quest’ambito, a una scelta che fu un tempo provocatoria e indirizzata a un orizzonte collettivo (il 6 “politico” come forma utopistica di uguaglianza, giusta o sbagliata che la si ritenesse) si sostituisce spesso una dimensione rigorosamente individualistica (il 6 “difensivo” in previsione di un’aggressione, a volte non solo immaginata).

Forma culturale meno violenta ma non meno dolorosa, il ricorso al TAR si è molto diffuso, negli ultimi anni, e alcuni genitori hanno capito che non lo si vince per questioni sostanziali, ma per difetti di forma. Una simile situazione costituisce un moltiplicatore di logiche burocratiche già di per sé dominanti nella scuola: di un colloquio, per esempio, non è affatto importante che rimanga traccia in termini di contenuti, stati d’animo, dialettica, ma che sia stato correttamente segnato sul registro elettronico, che la convocazione sia  stata spedita per tempo tramite mail istituzionale, che la scheda allegata al verbale di una seduta abbia segnalato motivazioni della valutazione, modalità e tempi di recupero.

In questo contesto di esasperato formalismo, esiste il concreto pericolo che contribuiscano a peggiorare la situazione perfino importanti acquisizioni contrattuali; ad esempio riconoscere che le attività dei GLO o la formazione obbligatoria dei docenti, quando eccedono le 40+40 ore previste dall’articolo 44, devono essere retribuite. In molte scuole, infatti, non potendo più contare sulla sostanziale gratuità della prestazione lavorativa in corrispondenza dei pomeriggi dedicati agli incontri scuola-famiglia (durante i quali non faceva alcuna differenza che si lavorasse una, sei o sette ore), è in atto da tempo il tentativo di riservare i colloqui ai ”casi” problematici, di fatto emarginando in ogni modo dalla partecipazione le famiglie che il leghista Vannacci definirebbe “normali”.

Fuori i genitori dalla scuola?

Le tinte distopiche che caratterizzano la lettura di queste riflessioni si attenuano al pensiero che si tratta della descrizione di sintomi, non di una malattia conclamata: è difficile immaginare che il lettore si riconosca in tutte (o nella maggior parte) delle evenienze citate; al contrario, è certo possibile che l’esperienza di qualcuno ne costituisca una smentita. Non credo però che se ne possa negare il progressivo radicamento.

Se è così, allora si deduce che la risposta alla domanda posta nel titolo non può essere che un “NO”, forte e chiaro.

Non è eliminando i genitori dalla comunità scolastica – di nessun ordine e grado – che si risolve il problema dei rapporti difficili fra scuola e famiglia. Se mai, è vero il contrario. Perché questa sottrazione di socialità, di opportunità di confronto e di dialogo, andrebbe incontro agli interessi di chi vuole le scuole separate le une dalle altre e in competizione fra loro; di chi vuole i docenti in concorrenza per ottenere vantaggi personali e profitto economico; di chi desidera studenti obbedienti e remissivi di fronte ai drammi del mondo, attivi e partecipi di fronte alle offerte del consumismo culturale e tecnologico.

La comunità non si ricostruisce a partire dalla sottrazione di presenza e di risorse, ma attraverso la riscoperta di ragioni collettive per difenderla e per conservare le conquiste di chi ha costruito una scuola democratica.

Questo è il primo punto all’ordine del giorno, nei prossimi incontri scuola famiglia. E in un prossimo articolo.

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