Il “capolavoro”, gli orientatori e la fine della scuola

 

A leggere attentamente ciò che sta accadendo nel dibattito sulla scuola, è difficile non pensare che dietro alla lotta ai voti, alla trasformazione della scuola in “certificazione delle competenze” ed esposizione del proprio “capolavoro”, possa esserci un’idea subdola e molto pericolosa.

Potrebbe essere sintetizzata così: non è più l’insegnante che sa e decide quali sono le conoscenze importanti che gli studenti devono acquisire; coerentemente con ciò, non è più compito dell’insegnante quello di verificare se gli studenti possiedono o meno certe conoscenze e abilità, né quello di aiutarli in tutti i modi ad acquisirle e a rielaborarle. Semplicemente, l’insegnante deve valorizzare quello che lo studente sa (fare) già: in questo senso deve diventare facilitatore, orientatore, e agevolare la personalizzazione degli apprendimenti, naturalmente “autonomi” e “trasversali” e quanto più possibile “non cognitivi”.

Non so se tutti hanno chiaro che probabilmente siamo di fronte a un’ideologia che prevede (senza dichiararlo sempre in modo esplicito) la fine della scuola, intesa come insegnamento da parte di chi sa di più – perché ha già affrontato certi percorsi di conoscenza – a chi sa meno, attraverso una relazione che, pur asimmetrica, è comunque biunivoca e bidirezionale.

Siamo di fronte alla negazione dell’importanza del lavoro comune, intergenerazionale, sul pensiero e sulla conoscenza, dell’acquisizione progressiva di conoscenze contestualizzate e strutturate, propedeutica all’apertura altrimenti impossibile di conoscenze più complesse e a un’interpretazione intellettualmente fondata dell’esistente.
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L’ideologia del “capolavoro”, così come quella dell’ “orientamento”, prevede che gli studenti non vadano aiutati dall’insegnante ad acquisire le conoscenze e le abilità che non hanno; no, quello che già sanno e che arriva dall’ “apprendimento autonomo” – e qui magari si tira fuori del tutto a sproposito la teoria dei diversi tipi di intelligenza, senza tra l’altro interrogarsi sulla validità educativa delle fonti da cui quell’apprendimento deriva – è sicuramente sufficiente e auto-conclusivo: va solo riconosciuto, valorizzato, orientato.

Questa ideologia in realtà preme perché la scuola (pubblica, si intende) confermi l’esistente, non si assuma più la responsabilità del futuro dei giovanissimi, smetta di istruire e lasci gli studenti lì dove sono, monadi isolate con i loro device e in balia del consumo di contenuti privi di ogni spessore culturale ed esistenziale imposti dal mercato, esclusi dalla possibilità di scambi culturali intersoggettivi profondi e vivificanti che aiutino a dare un senso alla realtà e a pensare qualcosa che vada al di là dell’orizzonte immediato del quotidiano.
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In modo più o meno consapevole, il punto di arrivo di questo processo è una società in cui la maggior parte degli studenti, futuri adulti, rimanga del tutto all’oscuro di molti dei saperi che si sono strutturati nel tempo in discipline: un’esclusione destinata a durare tutta la vita visto che, tautologicamente, non si può desiderare di conoscere ciò di cui si ignora anche l’esistenza. D’altra parte perché sprecare tante risorse perché i giovanissimi progrediscano umanamente e culturalmente se sono destinati a fare gli utenti, i consumatori, i rider o i lavoratori dequalificati a cottimo?

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