La consapevolezza della complessità non deve spingerci al nichilismo e al negazionismo

di Francesco Provinciali

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Il nichilismo del XXI secolo non assomiglia neanche un poco a quella filosofia di pensiero che lo aveva generato agli inizi del 900: oggi il nichilismo 4.0 si fa negazionismo senza alternative, un passatempo, dunque, inconcludente e surrettizio, un riempitivo evanescente del nulla. L’intervento di Francesco Provinciali, già dirigente ispettivo Miur e Ministero della Pubblica istruzione

10 Agosto 2024 07:58

In un brillante saggio pubblicato nel 2021 per il Wiserd (Wales Institute of Social and Economic Research, Data and Method, un centro di ricerca interdisciplinare in scienze sociali con sede amministrativa presso l’Università di Cardiff, nel Galles) con l’intrigante titolo “Learning to live: An era poised between enlightenment and obscurantism” (Imparare a vivere – Un’epoca in bilico tra lumi e oscurantismo) il Prof. William John Morgan, Emerito alle Università di Cardiff e di Nottingham, tracciava una rapida e vigorosa sintesi delle contraddizioni e delle potenzialità del nostro tempo, sotto vari profili di considerazione. Rileggendolo oggi colpisce la sua capacità di inquadrare in un efficace fermo-immagine una serie di tematiche di incalzante attualità, partendo da una ‘colossale monografia’ di Michael Grant – I gladiatori – scritta 50 anni fa, grazie anche all’impeccabile traduzione a cura dello Studio Annita Brindani (Busseto-Parma).

Nel vasto mondo romano, questo è il contesto storico considerato nell’incipit, “milioni di persone si sentivano inette, ignorate, trascurate, smarrite e soprattutto annoiate”: la metafora del ‘panem et circenses’ di Giovenale era la risposta della classe dirigente a questa alienazione di massa. Morgan ritrova questa condizione – a un tempo – di alienazione e di insoddisfazione nelle efferatezze perpetrate dall’umanità nei secoli successivi, fino al nostro tempo. Evidenziando peraltro come si viva oggi in un mondo che offre straordinarie opportunità di conoscenze e dotazione di mezzi per cercare un sostenibile equilibrio esistenziale.

Impossibile che sia sfuggito al Prof. Morgan il coacervo di problematicità latenti, vissute ed emergenti, non è immaginabile che nel suo ragionamento non tenga conto ad esempio della crisi climatica e delle conseguenze che ne possono derivare, certamente conosce il Rapporto ONU COP/26 (e i successivi) dalle previsioni catastrofiche, impossibile inoltre che non abbia cognizione del dramma planetario della pandemia, delle questioni demografiche e degli esodi biblici, della fame del terzo mondo, del dramma dell’Afghanistan, dei conflitti culturali e dei fondamentalismi (e ora delle guerre in Ucraina e in Israele e Palestina). Egli è uomo del nostro tempo e non si sottrae ai suoi dilemmi, anzi li fa emergere allo scopo di evidenziarne le contraddizioni.

La più evidente consiste proprio nella sostanziale incapacità di governare il cambiamento: il riferimento non riguarda tanto l’impresa tecnica o le potenzialità del web in senso strumentale quanto piuttosto l’assenza di controllo e di dominio dei flussi informativi, comunicativi e relazionali.

Il fatto che la nostra vita non possa più prescindere dall’universo semantico e simbolico di internet e del web crea una distonia tra reale e virtuale che ci disorienta: siamo immersi in pieno nell’opposto concettuale riassunto dalla descrizione del villaggio di Macondo da Gabriel Garcia Marquez, dove le cose erano così nuove che non avevano un nome e per definirle bisognava indicarle con il dito.

La pluralità e la sovrabbondanza di dati, notizie e informazioni di cui disponiamo dovrebbe impegnarci in una sorta di selezione per promuovere la condizione umana e la dimensione sociale delle sue relazioni: il tema sotteso è quello dell’etica della responsabilità che spesso soccombe ai sensazionalismi, ai casting improvvisati e alla circolazione delle fake news che finiscono per assecondare interessi commerciali e privati, piuttosto che la promozione del bene comune all’insegna del vero e del giusto.

Di questa condizione sono state date definizioni suggestive che la descrivono ma non la spiegano, dallo spaesamento, alla liquidità debordante, dal villaggio globale al grande fratello, definizioni cioè che afferiscono alle contraddizioni esistenziali di questo tempo, tra etica ed estetica, soggettività e bene comune, tradizione e progresso, apparenza e realtà, empirismo e utopia.

La destrutturazione e la polverizzazione delle dinamiche conoscitive e dei flussi informativi sono uno degli aspetti che la cultura del web sta introducendo nei meccanismi relazionali: ciò si riscontra osservando come le idee radicate nella storia e tramandate dalla tradizione siano state a poco a poco sostituite dalle opinioni soggettive. “Viviamo una situazione paradossale, bombardati da frasi a effetto in cui tutti urlano la propria verità mettendo a tacere anche le opinioni più autorevoli, abbandonando ogni discorso basato su evidenze ed argomentazioni motivate”. Uno stallo di relativismo che si fa assoluto, l’epifenomeno di una umanità a poco a poco deprivata degli archetipi per far posto ad improbabili verità soggettive, una democrazia-pozzanghera dell’impantanamento ossessivo e compulsivo dell’uno vale uno, a prescindere dai vincoli oggettivi della sua strutturazione e dell’esercizio di un potere di gestione riconosciuto e legittimato.

Neppure Max Weber aveva accettato questa idea di democrazia acefala, deprivata dai concetti di responsabilità, competenza ad autorità, basti leggere le sue lezioni raccolte ne “Il lavoro intellettuale come professione”. Partecipazione democratica non è obbedienza ad un dogma di iniziazione calato dall’alto.

L’input del Prof. Morgan apre ad approfondimenti che si rivelano necessari per restituire un riorientamento ed una direzione di senso al lavoro intellettuale, al fine di sottrarre la realtà e l’ordine delle cose al limbo dell’indeterminato.

Il nichilismo del XXI secolo non assomiglia neanche un poco a quella filosofia di pensiero che lo aveva generato agli inizi del 900: oggi il nichilismo 4.0 è sostanzialmente assenza, destrutturazione, immobilismo, miscredenza, una miscela paralizzante e negazionista agìta anche sotto forma di violenza simbolica, come ribellione dell’io. Di quell’io che sta compiendo un lungo periodo di sgretolamento e di lisi verso la dissoluzione identitaria: la stessa umanità si fa debole e annichilita, il tempo si accorcia, per questo manca una visione credibile del futuro, annientata proprio dal proliferare di una micro progettualità autoreferenziale e di breve deriva. Un nichilismo – lo vediamo crescere – che si fa negazionismo senza alternative, ove non si considerino la preclusione alla scienza, la minusvalenza della vita o la coreografica rappresentazione plastica di quel terrapiattismo perennemente alla ricerca di evidenze dimostrabili tanto da far opera di proselitismo in ogni target sociale: un passatempo, dunque, inconcludente e surrettizio, un riempitivo evanescente del nulla.

Morgan descrive un’iconografia della realtà che oscilla tra oscurantismo e neo-umanesimo: di più, invoca il ritorno alla ragione e alla ragionevolezza, non senza ammettere che un neo-illuminismo nella società irreversibilmente globale difficilmente riuscirebbe a trovare spazio.

Tuttavia la necessità irrinunciabile di trovare ipotesi condivise ed utili alla soluzione di problemi comuni spinge il Prof. Morgan a cercare alternative e capacità in altri ambiti: “se vogliamo rinnovare e rafforzare tali capacità occorreranno delle qualità non cognitive per poter valutare gli strumenti scientifici cognitivi attuali e futuri”, come il dialogo, il lavoro di squadra, la valutazione e – sostengo io – il controllo come valore aggiunto a valenza “promozionale”.

Spiega conclusivamente William John Morgan: “si tratta di una visione umanistica del concetto di educazione e sviluppo, fondato su principi quali il rispetto della vita in tutte le sue fasi, la dignità umana, la parità dei diritti, la giustizia sociale, la diversità culturale, la solidarietà internazionale e la responsabilità condivisa per un futuro sostenibile”.

“Vaste programme”, direbbe De Gaulle.

Ed è vero: il programma è vasto e impegnativo ma giunti a questo punto, in cui si discute dei destini del pianeta e dell’umanità, in cui il futuro si può fare improvvisamente breve e imperscrutabile, è necessario che ciascuno avverta e assuma il dovere di fare la propria parte.

L’imperativo è morale, non retorico e va assolto a cominciare da una politica che deve trovare altre categorie connotative oltre il vincolo ideologico, la personalizzazione e il posizionamento parlamentare: a maggior ragione ciò vale in questo periodo di elezioni avvenute o imminenti, di alleanze, strategie, incombenti minacce, guerre e sconvolgimenti umanitari.

Poiché la saturazione demografica del pianeta, le ciclicità pandemiche e l’emergenza climatica sono di per sé buone e sufficienti ragioni per cambiare marcia e registro, hic et nunc.

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