La prof aggredita a Napoli e una certa indulgenza verso i ‘cattivi’: così s’impoverisce la scuola

di F.Q.di Davide Trotta,  Il Fatto Quotidiano

 

La recente aggressione avvenuta a Napoli ai danni di una prof, al netto delle responsabilità ancora da verificare, si inserisce a buon diritto nell’ormai collaudato filone Scuola western, che quest’anno può vantare inaugurazione d’autore: infatti l’autore di un pirotecnico calcio rivolto a un prof il primo giorno di scuola è stato un alunno.

Ma il caso napoletano presenta record difficilmente eguagliabile: un plotone di 30 genitori contro una sola prof, scena che desterebbe invidia anche al Terence Hill de Il mio nome è nessuno dove il protagonista, per garantire fama eterna al suo idolo Jack Beauregard alias Henry Fonda, lo mette davanti all’assalto del mucchio selvaggio, ossia migliaia di cow boys scatenati contro l’eroe che, per consacrarsi a gloria perenne, deve far credere a tutti di soccombere al mucchio mentre lo affronta. E a chiosa del film si sentenziava – vado sul filo della memoria – che eroi così l’epoca moderna non ne produce più.

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Possiamo dire che queste basse aspettative siano state ampiamente riscattate dalla scuola italiana, nei cui corridoi la classe docente spesso si trova a diventare protagonista di violente aggressioni. Speriamo di non dover soccombere anche noi ai mucchi selvaggi di genitori/studenti di turno per consacrarci a eroi.

La criticità sembra venir snodandosi lungo duplice binario: legislativo e culturale.A fronte di questi episodi appare evidente l’inidoneità di misure volte a contrastarli e contenerli, fatto salvo il ricorso al penale che pur non pare un deterrente così decisivo, visto il crescente numero di tali episodi. Se la scuola subisce continue iniezioni di riforme spesso infelici che le stanno sfigurando sempre più i connotati, altrettanti contributi non si profilano all’orizzonte per dotare la classe docente di un’armatura tesa a proteggerla.

Vedremo se l’ammenda pecuniaria prevista a norma di legge dal ministro Valditara da 500 fino a 10000 euro sarà deterrente adeguato. Per ora sembrerebbe di no.

Parallelamente va annotato come il disciplinare per il personale scolastico abbia subito un progressivo irrigidimento, cui appunto non corrisponde un altrettanto efficace irrobustimento delle tutele lavorative. Le pretese istanze aziendalistiche promosse dai governi a vario titolo sulla scuola rivelano ancora una volta la propria fallacia: difficile immaginare lavoratori al servizio di un’azienda, qualunque essa sia, con una familiarità così assidua coi pronto soccorso – e non certo per incidenti fortuiti.

Peraltro restringere questa casistica così sciagurata alla sola classe docente rischia di essere fuorviante rispetto a un problema di più ampio respiro: è noto che nel novero dei bersagli più esposti ad aggressioni rientrano anche personale sanitario e forze dell’ordine. Pertanto se neppure la tanto temuta divisa riesce più a suscitare una lieve continenza, vuol dire che c’è un problema più profondo, di natura culturale.

Basta assistere a un talk show a caso per vedere nomi illustri, tra politici e intellettuali, giustificare comportamenti assurdi, se non criminali, in nome di contesti socio-economici e familiari disagiati. Tendenza che rivela – a mio avviso – pressapochismo e miopia critica, con velleità simili a quelle della nobiltà oziosa tratteggiata da Parini, assorta in discussioni sugli ideali illuministi di libertà, uguaglianza ecc. conosciuti in maniera posticcia e ben lungi dall’essere praticati.

Abbiamo sentito condannare il padrone di casa se si difende da un ladro nella propria abitazione, colpevolizzare il poliziotto che spara per difendere se stesso o la cittadinanza. In quest’ottica di giustificazionismo a oltranza si possono spiegare alcune fenomeni scolastici

  1. il glorioso dato recente che consacra al raggiungimento del diploma il 99,8% degli studenti ammessi
  2. una diffusa renitenza a bocciare per evitare patemi d’animo ai pargoli, così sicuramente forgiati sulla pietra e pronti a qualsiasi sfida per il futuro;
  3. la necessità di una didattica personalizzata cucita su misura per ogni studente, come se la scuola fosse un ristorante con menu, neanche fisso, ma variabile per ogni cliente
  4. certificazioni Dsa a pioggia, che sembrano vagamente evocare le pensioni di invalidità della prima Repubblica nel film “Quo vado” con Checco Zalone.

Se la scuola, secondo una definizione abbastanza retorica, dovrebbe essere palestra di vita, questa indulgenza che rasenta talora il maggiordomato sembra più adatta a un excelsior, tuttavia poco funzionale ad affrontare contesti futuri, come quelli lavorativi, oggi più che mai non così in vena di facili concessioni. Ne esce uno scenario abbastanza impoverito da un punto di vista intellettuale, al punto che si ha paura a chiamare le cose col loro nome a favore di un politicamente corretto che diventa una forma di dittatura intellettuale.

La straordinaria preoccupazione per le parole, legittima e doverosa, a patto che sia accompagnata da provvedimenti adeguati a persone e situazioni, tradisce in realtà l’incapacità di padroneggiare con l’azione la complessità del reale. Che si preferisce velare di preziose etichette formali a scapito della sostanza. Ed è così che in questo mundus inversus, in cui il proprietario di casa che si difende può risultare colpevole al pari del poliziotto, anche una prof può essere assalita dal mucchio selvaggio: sicuramente qualcuno di loro era povero, beveva, ha avuto un passato difficile. E ci piace così.

 

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