La sanità e la scuola, due istituzioni prese a schiaffi
di Francesco Provinciali, Start Magazine
I professionisti della sanità e della scuola dedicano anni allo studio e si cimentano in concorsi pubblici selettivi ma tra umiliazioni e pericoli in cui incorrono una volta giunti alla mèta viene da chiedersi se ne valeva la pena. L’intervento di Francesco Provinciali, già dirigente ispettivo Miur e Ministero della Pubblica istruzione
Mettiamoci per un attimo nei panni di medici, infermieri e insegnanti che svolgono la loro professione nel servizio pubblico. Da tempo, molti di loro, malcapitati per la legge dei grandi numeri – oggi a te domani a me, nessuno ne è potenzialmente escluso – sono fatti oggetto di aggressioni da parte dell’utenza di cui si occupano.
Alunni o genitori che mettono le mani addosso ai docenti per un rimprovero, un cellulare ritirato, una nota sul registro, un voto, per non parlare di sospensioni o bocciature. Addirittura casi di armi portate in aula, coltelli e pistole a pallini: si aggredisce o si spara direttamente in classe o si avvertono i familiari a casa o sul lavoro dell’ingiustizia subita e li si aizzano affinché si precipitino a scuola e la lezione la impartiscano loro agli insegnanti, pelo e contropelo senza ritegno e senza riguardo.
Gli episodi di bullismo tra alunni ormai non si contano più, sono da tempo stati derubricati a intemperanze verso le quali si deve chiudere un occhio. Il recente provvedimento voluto dal ministro Valditara vuole mettere dei paletti e introdurre norme severe nei comportamenti degli alunni e nella loro valutazione, a cominciare dal 5 in condotta che apre le porte alla bocciatura, oltre alle sanzioni pecuniarie.
Insomma la scuola – senza diventare un’istituzione para-militare – deve recuperare l’autorevolezza perduta e applicare concretamente l’educazione civica alla prassi di normalità da ripristinare. Con un sospiro di sollievo delle vittime di violenza e della maggior parte degli studenti che fanno il loro dovere e che un briciolo di rispetto verso i professori l’hanno conservato.
Negli ospedali, nei reparti ma specialmente nei Pronto Soccorso, da parte dei parenti degli assistiti o dai pazienti stessi che non sopportano attese o interferiscono nelle terapie o non accettano responsi nefasti o il decesso del congiunto, anche se gravemente malato, in fase terminale o sottoposto a intervento chirurgico ad alto rischio, volano calci, pugni, sedie, si rovesciano lettini e scrivanie: giù botte da orbi, uno ci lascia un timpano, l’altro è pestato a sangue, il resto deve rinchiudersi e barricarsi in uno stanzino in attesa dell’intervento delle forze dell’ordine.
Non so se siano vicende solo italiane o se il vezzo della ribellione e del passare direttamente alle vie di fatto sia invece un segno dei tempi, che si registra un po’ ovunque. Si tratta di situazioni ed episodi – peraltro in crescita esponenziale – che mai e poi mai avremmo immaginato potessero accadere. Sono forme di ribellione e aggressività verso professioni un tempo rispettate e persino temute: ora non so se il mondo è proprio alla rovescia ma un tantino inclinato verso il peggio mi pare che lo sia davvero.
Per chi si interrogasse su questi fenomeni ci sono poche domande, anzi una sola: “perché?” e molte risposte.
I professionisti della sanità e della scuola dedicano anni di studio e si cimentano in concorsi pubblici selettivi. Giunti alla mèta viene da chiedersi se ne valeva la pena. A parte l’umiliazione, i pericoli per certi comportamenti dissennati e impulsivi, senza ritegno a cui sono esposti, va certamente considerato che si tratta di mestieri un tempo ambiti, sinonimo di uno status rispettato e socialmente utile, che non tutti riuscivano a raggiungere. Ora – in particolare nella sanità pubblica – fioccano le dimissioni o il passaggio a strutture private.
Di vero c’è che politica e sindacati – me lo si lasci dire – non sono riusciti finora a metter mano a misure di controllo, a provvedimenti autoritativi sollecitati dalla gravità del fenomeno. A cominciare dalle retribuzioni del personale sanitario e scolastico, le più basse d’Europa, fino ai presìdi di prevenzione, in particolare negli ospedali: c’è molto malcontento e molta sfiducia tra gli addetti ai lavori.
I camici bianchi erano un segno di distinzione e prestigio, ci potevano essere episodi negativi ma – ricordiamo il periodo della pandemia da Covid-19 – questa è sempre stata gente che si rimboccava le maniche, facevano della professione una missione a costo di mettere a repentaglio la propria, di salute. Quanto alle cattedre dei docenti erano approdi per chi aveva a sua volta sudato sette camicie per arrivarci.
Indubbiamente la politica deve por mano a questo degrado e alle violenze che ne derivano. Ma è la società civile che siede sul banco degli imputati: si è diffusa infatti una ipertrofia del diritto, tutto è dovuto, anche i miracoli che promuovono i somari o salvano i moribondi.
Anche la burocrazia fa la sua parte nel copione del dissesto istituzionale e nella denigrazione dell’immagine dei professionisti della sanità e della scuola. Tutto contribuisce a complicare le cose: modulistica, registri elettronici, digitalizzazione, rendicontazioni.
Trasparenza e privacy sono due forche caudine dove bisogna far passare di tutto, per spiegare anche a chi non sa capire, perché la demagogia e la mistificazione della verità indulgono a inchinarsi sempre, tutto è dovuto, si arriva al punto in cui arroganza, ignoranza e prepotenza la fanno da padrone perché la violenza che sta impadronendosi di tutti i contesti sociali come forma prevalente di comunicazione e interlocuzione diventa il modus operandi che va diffondendosi a macchia d’olio, che rende istituzioni e società marcescenti e incancrenite dall’odio e dalla cattiveria.
Qualcuno deve fare qualcosa, occorre ristabilire le regole che facciano funzionare i pubblici servizi e restituiscano il rispetto dovuto a chi ci lavora. Altrimenti qui si torna all’età della clava e del farsi giustizia sommaria da sé. È proprio il caso di dirlo: “mala tempora currunt, sed peiora parantur”.