La scuola senza pace

La letteratura e noi, 27.1.2025.

 

Nota a margine delle nuove linee guida di Educazione Civica.

A volte si dice che l’istruzione non ha più nessuna coerenza, che non è più ordinata a una visione chiara della società e del futuro, e che ormai è soggetta al caos e all’anomia delle società individualistiche. In realtà, il discorso dominante sottopone oggi la scuola a due logiche che sono più complementari che contraddittorie: il neoliberalismo e il vecchio nazionalismo autoritario.

C. Laval e F. Vergne, “Educazione democratica” (2022, Novalogos, pag. 140)

Il valore civile delle discipline e il dialogo fra i linguaggi

Questa riflessione ha un preciso punto di avvio: un’esperienza didattica che da molti anni propongo alle mie quinte, descritta qualche anno fa su queste pagine.

Nata come attività di approfondimento interdisciplinare e momento di verifica dell’acquisizione di significativi nuclei concettuali del percorso storico-letterario, dopo che la prova orale dell’esame ha assunto la sua attuale fisionomia ha consolidato le sue caratteristiche più spiccate:

  • offrirsi come una significativa opportunità per una riflessione interdisciplinare, a partire dallo studio della propaganda totalitaria nazifascista e dall’abbattimento dei regimi che la sostenevano, su nozioni e argomenti si stretta attualità: le idee di democrazia, realtà, realismoautocraziaidentitàmassificazioneveritàfalsitàrappresentazione
  • rendere possibile un lavoro su due assi portanti per costruire un rapporto profondo fra gli argomenti di studio, il mondo fuori dalla scuola, il vissuto di ciascuno studente: le abilità di storicizzazione e di attualizzazione
  • attraverso un importante esempio storico, promuovere un’autentica consapevolezza degli strumenti e dei mezzi di comunicazione come portatori di valori, immaginari e ideologie, in un tempo che tende a presentarne l’utilizzo come “naturale” e “neutro” di fronte alle realtà rappresentate.

Nel corso degli anni, la validità culturale di quest’esperienza è stata più volte confermata: da una parte, dall’esito delle prove sostenute dalle classi all’esame di Stato; dall’altra, non meno importante, dall’apprezzamento del suo valore conoscitivo a opera delle ragazze e dei ragazzi, anche rispetto alle loro scelte personali e alla capacità di padroneggiare strumenti di analisi e lettura che li mettano in grado di rispondere alle sfide difficili del nostro presente.

Un simile percorso trova oggi la sua collocazione naturale nell’ambito dell’Educazione Civica. Senza perdere la sua forza rispetto all’acquisizione di contenuti, allo sviluppo di abilità interpretative e argomentative interne alla formazione linguistica e letteraria, si distingue infatti per l’apertura interdisciplinare e come occasione di dialogo fra metodi, strumenti e linguaggi provenienti da diversi ambiti del sapere.

Se però fino al recente passato questo lavoro si collocava con naturalezza nel contesto delle indicazioni normative, oggi questo non è scontato. La scuola vive in un mondo che cambia, e nel nostro Paese il contesto culturale sta cambiando in modo tanto veloce quanto profondo. Quale posto, allora, può essere occupato da un’esperienza di studio come questa nella scuola dell’istruzione e del merito?

LE VOCI DELLA CLASSE

Da parte degli studenti della quinta B opzione Scienze Applicate, non sembrano esserci molti dubbi sulla direzione del lavoro e sul suo valore. Quest’anno, ad esempio, nell’ultima tappa del percorso di apprendimento e valutazione ho chiesto loro di analizzare la sequenza conclusiva di “Roma città aperta”, lasciandoli liberi di scegliere se sviluppare un solo tema fra quelli proposti, o mettersi alla prova in uno scritto che tenesse conto di tutti possibili approfondimenti, riportati qui di seguito:

  • studiare gli elementi fondamentali della retorica filmica di Rossellini, sul piano verbale, visivo e uditivo
  • ragionare sul rapporto fra la poetica del regista, quale emerge da questa scena, e gli stereotipi del cinema di propaganda analizzati insieme in classe
  • allargare il campo della riflessione anche alle poetiche letterarie del realismo studiate finora (Manzoni, lo scorso anno; Naturalismo Verismo e Verga, quest’anno)

A illustrare la passione e l’importanza dei lavori, belli e pensati, basteranno alcuni passaggi tratti direttamente dalle pagine degli studenti, diversi per qualità dell’espressione ma identici per intelligenza e capacità di visione:

In sintesi il significato della sequenza è la rappresentazione di alcuni simboli della morale (secondo Rossellini la morale universale è quella cristiana), come i bambini, i soldati quando si rifiutano di sparare al condannato e il prete, posti in antitesi con la crudeltà della guerra, di ogni guerra, simboleggiata qui dal soldato tedesco. (Lorenzo D.)

Parlo di epicità perché da questo punto di vista è presente un’antitesi significativa rispetto alla tradizione del cinema di propaganda nazifascista. La musica trionfale era sempre stata associata a un’idea di vittoria e gloria, spesso collettiva, mettendo in risalto l’epicità di una nazione o di un’ideologia. In questo caso, al contrario, epico è il comportamento di un debole, solo apparentemente sconfitto. (Matteo)

Il fatto che il condannato sia seduto con la schiena rivolta al plotone va ad aggravare ulteriormente la fine di un innocente, perché è questo di cui si parla. (…) Questa modalità permette ai soldati di non vedere in faccia il condannato e dunque di non poter empatizzare con lui: l’empatia potrebbe compromettere la loro inumana rigidità, perché i sentimenti che potrebbero provare li farebbero passare da automi a uomini. (Pietro)

Don Pietro non dimostra odio nei confronti di coloro che stanno per togliergli la vita: non esita a togliersi il cappello e piuttosto ringrazia il soldato (nemico) che glielo prende. La simbologia del sacrificio e del perdono trova facilmente la strada, accompagnata dalla presenza di una Provvidenza manzoniana che si occuperà di far sì che il destino si compia. (…) Un altro simbolo evidente è la cupola di San Pietro in lontananza: i bambini si dirigono in direzione di San Pietro, come se quella fosse la loro meta sia fisica che spirituale. La speranza è infatti che i bambini si dirigano verso la morale religiosa dal sacerdote che si è appena sacrificato per loro.  (Lorenzo G.)

(I bambini, ndr) sono il futuro di un paese che deve rinascere dopo il conflitto in cui il fascismo l’ha trascinato, e sono portatori e testimoni del coraggio e del rigore morale del loro prete. (Edoardo)

(…) assumono un valore centrale le parole del don: «Non è difficile morire bene. Difficile è vivere bene». Questa frase fa riflettere come morire per dei valori sia relativamente facile, rispetto a vivere incarnando questi valori. Chiaro esempio di questo ci viene dato da Montale in Primavera hitleriana, quando descrive i miti carnefici, le persone indifferenti di fronte alle ingiustizie commesse dal Nazifascismo. (Andrea)

IL PROBLEMA CULTURALE

Tutto bene, quindi? Sì, ma solo in parte. Perché per onestà intellettuale devo riconoscere che tanto il percorso quanto le argomentazioni che ne sono sortite non sono in linea con le nuove linee guida per l’insegnamento dell’Educazione Civica; per almeno due ragioni, ciascuna delle quali può essere sintetizzata in alcune parole-chiave che caratterizzano quest’esperienza, e che sono invece assenti, distorte, marginali o fumose nel nuovo testo normativo:

  1. studiare in prospettiva storica i meccanismi della propaganda significa misurare la stringente attualità delle manipolazioni operate a danno della pubblica opinione. In particolare nelle cosiddette democrazie liberali, questi meccanismi esplicano in pieno le loro potenzialità nel discorso pubblico sulla pace e sulla guerra, descritti in base a una retorica infantilizzante di “buoni” contro “cattivi”. Questa retorica cancella qualsiasi elemento di complessità; a sostegno di scelte economiche e politiche dettate da quelli che Bob Dylan nel lontano 1963 definì “masters of war”, e che oggi dominano incontrastati la scena politica e culturale. Il passaggio dal cinema di propaganda al realismo del secondo dopoguerra denuncia invece la falsità di qualsiasi retorica bellicista; anche al di là della fede religiosa (centrale in Rossellini), uscire dalla propaganda significa laicamente (cioè con onestà e raziocinio) vedere la realtà di miseria e disperazione che domina le macerie del conflitto. E capire che da queste macerie sorge l’ordinamento del nostro Paese e l’enunciazione dei principi fondamentali della Costituzione, tra i quali occupa un posto centrale il più travisato di tutti, l’articolo 11. Ma – ecco la prima ragione di dubbio – nelle nuove linee guida di Educazione Civica non compare mai la parola “pace”. Mai. Al contrario, come dimostrano anche frequenti casi di cronaca (questo il più incredibile), è in corso un inquietante processo di militarizzazione delle scuole italiane, documentato in modo rigoroso da un recente libro di Antonio Mazzeo. In definitiva secondo le nuove linee guida, mentre è importante che il giovane cittadino rifletta su alcuni temi ricorrenti – ossessivo quello dell’educazione stradale, evidentemente considerata un’urgenza nazionale – non è invece importante che rifletta sulla pace e sulla guerra, per non dire dei diritti di chi lavora. Ma questo, ovviamente, è un altro discorso.
  2. La stessa sottile antitesi emerge ragionando sul ruolo che le nuove indicazioni normative assegnano alle dimensioni del vivere civile. Di tutto ciò che è “pubblico”, il progetto di educazione civica sottolinea che è a servizio dell’individuo, e non viceversa; episodici e generici richiami ai doveri civili di sussidiarietà (maliziosamente accostati al principio di “autonomia”) soccombono di fronte al discorso sui diritti individuali, declinati più volte in termini di imprenditorialità e produzione. Quando si riflette sul tema della legalità, non a caso, si sceglie di esemplificare i comportamenti criminali con esempi legati a lesioni inflitte al singolo, non alla collettività: non è tempo, per intenderci, di sottolineare i danni irreparabili causati al Paese e alla collettività dall’evasione fiscale o dalla corruzione. Esattamente al contrario, come mostrano anche alcuni passaggi delle argomentazioni dei ragazzi citate in precedenza, lo sbocco naturale della riflessione sulla propaganda è la denuncia di un nazionalismo basato sulla vuota retorica, sull’egoismo del singolo Paese, sulla cancellazione della persona in quanto soggetto che sceglie da che parte stare e sulla costruzione di un nemico interno da emarginare e distruggere. Il prodotto di questa visione del mondo, risulta piuttosto chiaro, è il traumatico passaggio dalle falsità rappresentate (nel caso italiano, i film dei telefoni bianchi o i cinegiornali) e la realtà di sofferenza e distruzione che ogni nazionalismo lascia in eredità ai suoi cittadini. Anche in questo caso, non riesce facile conciliare i principi che ispirano una simile attività con quelli che fondano le nuove linee guida: da una parte ci sono infatti il valore di ciò che è pubblico, della condivisione e della collettività, della socialità e dell’internazionalismo; dall’altra il primato del privato, dell’individuale (individualistico), del nazionalismo e di una fumosa idea di Patria, a metà fra il culto religioso del passato di “un luogo chiamato Italia” e l’ammirazione consumistica per i prodotti del “made in Italy”.

Sono questioni, mi sembra, estremamente serie.

Sul piano delle scelte didattiche personali, mie e di qualsiasi collega, vale il principio costituzionale: “L’arte e la scienza sono libere, e libero ne è l’insegnamento”.
In presenza quindi di un’indicazione normativa palesemente segnata dal tentativo di piegare l’educazione civica, addestrando gli studenti a pensare entro i ristretti termini di una visione di parte, esiste un superiore diritto a perseguire finalità libere da interessi e faziosità.

Tuttavia, indicazioni di questo genere collocano la libertà di cui sopra in un contesto di forti pressioni e ingerenze, tanto più significative in una realtà come quella dell’istruzione, soggetta a logiche burocratiche e formalismi spietati. Non si tratta quindi di trovare l’inganno attraverso il quale eludere la legge, bensì di disobbedirle – credo, legittimamente – e di lottare per cambiarla.

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