La vocazione perduta della scuola
Il Corriere della sera
Troppo spesso e con superficialità si pensa che la scuola sia una grande supplente
che deve risolvere i tanti guai che ci sono nel mondo.
Una volta a scuola entravano soltanto gli alunni e gli insegnanti. Oggi vi entrano tutti: consulenti, psicologi, magistrati, imprenditori, accademici, autori, carabinieri, poliziotti, infermieri, medici eccetera eccetera. La scuola è cambiata — si dice — perché il mondo è cambiato e bisogna aggiornarsi, altrimenti c’è il rischio che si rimanga indietro. Può darsi che in questa esigenza ci sia una giusta richiesta e, soprattutto, una buona intenzione che può essere resa così: la scuola al servizio della società. Tuttavia, c’è anche un rischio che è qualcosa di più di una possibilità, è già una realtà: una scuola che è troppo pressata dalla società è destinata a perdere la sua vocazione che dovrebbe essere il giusto dosaggio di insegnamento ed educazione.
Una testa ben fornita è una testa ben formata e una testa ben formata è una testa ben fornita (dicevano Salvemini e Valitutti). Troppo spesso — e con troppa superficialità — si pensa che la scuola sia una grande supplente che deve risolvere i tanti guai che ci sono nel mondo che c’è là fuori. La famiglia non c’è e deve supplire la scuola. Nella società c’è violenza e deve intervenire la scuola. Non c’è un’adeguata formazione lavorativa e deve occuparsene la scuola. In questo indebito scambio di ruoli si genera confusione e si ottengono due rovinosi risultati: la scuola non soddisfa le richieste della società e la società snatura la funzione della scuola.
Naturalmente, non si tratta di ritornare all’antico o immaginare una scuola che sia un mondo a parte. Sarebbe impossibile.
La scuola è parte del mondo e proprio dal mondo ricava — dovrebbe ricavare — gli stimoli e le risorse umane e professionali per svolgere al meglio il suo lavoro. Ma una cosa è essere in relazione con il mondo e altra cosa è essere sopraffatti dal mondo. Oggi, piaccia o no, prevale il secondo caso e così la scuola è svuotata di sé stessa — insegnamento ed educazione — e riempita di tutt’altro — progetti e percorsi —: così si vorrebbe generare orientamento ma in realtà si crea disorientamento. Non è un caso che, soprattutto al Sud e soprattutto in Campania, aumentino abbandono e dispersione scolastica e i giovani che non studiano e non cercano un lavoro.
La scuola — sia detto in due parole — è stata trasformata in un «corso di aggiornamento», che il più delle volte è un «corso di annottamento», è ormai concepita come una «scuola guida» con il risultato evidentissimo che tutti finiscono fuori strada perché nessuno sa più quale sia il suo ruolo. Si chiede alla scuola ciò che la scuola non può dare, ossia la formazione professionale, per il semplice motivo che professione e professionalità sono il frutto da un lato di una scelta personale e dall’altro di una competenza che si conquista sul campo dell’esperienza. Questa confusione esiste nello stesso ambito della scuola ministeriale che parla indebitamente di conoscenze e competenze concependo la scuola come un gigantesco ufficio di collocamento con la distribuzione dei diplomi.
Un errore di sistema che l’Italia intera sconta da cinquant’anni e dal quale derivano tre enormi disfunzioni: la indistinzione tra scuole liceali e professionali che ora si cerca in modo maldestro di recuperare; la crisi della scuola di Stato che non sa più garantire il diritto allo studio; la fine delle vocazioni. Quest’ultimo aspetto è stato sottolineato, dal suo punto di vista, dal capo della polizia Vittorio Pisani quando, parlando in collegamento da Napoli alle 101 questure d’Italia, ha detto che «la nostra attenzione è focalizzata sui giovani e, fin dalle scuole medie superiori, lavoreremo per ampliare il bacino delle vocazioni attraverso percorsi formativi».
Ben vengano i percorsi formativi della scuola di polizia ma anche per questa via non si avranno «vocazioni» perché si è persa proprio la vocazione scolastica il cui compito primario, da far tremare le vene ai polsi, è scoprire e conoscere sé stessi.