L’importanza di pensare prima di parlare
Francesco Provinciali
START MAG
…..”Se il pensiero – cioè la riflessione, la consapevolezza, la comprensione – giace inerte e silente, se non precede ciò che si dice o non vaglia in modo critico ciò che si ascolta, la parola resta un’inebriante e spesso insensata anestesia collettiva che ci illude su una realtà che non esiste”…..
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La straordinaria opportunità di un’intervista con Rita Levi Montalcini mi ha lasciato in dono una sua considerazione, che trovo a un tempo altissima nella sua sintesi culturale e pratica nella gamma infinita delle sue possibili declinazioni.
“Pensare può essere utile mentre parlare non sempre è necessario”: si tratta di un’affermazione che nella sua apparente e sorprendente semplicità esprime in realtà un concetto denso di implicazioni utili nelle quotidiane circostanze della vita.
In genere accade infatti il contrario: si dicono e si ascoltano molte cose senza avere l’esatta percezione del loro significato.
Pensieri e parole non sono sempre legati da un nesso logico di causa-effetto, tanto è vero che molte delle incomprensioni nelle relazioni interpersonali sono dovute alla dissociazione e all’incoerenza tra le idee e i comportamenti.
Si utilizzano, cioè, stereotipi, considerazioni e opinioni come fossero beni di consumo, con disinvolta e spesso contraddittoria facilità si attinge al gran calderone delle frasi fatte e delle cose dette: trovandone già molte in libera circolazione risulta persino superfluo sforzarsi a pensarne delle proprie.
Molto più semplice utilizzare giudizi e valutazioni desumendoli dai luoghi comuni del sentito dire o della cultura prevalente, rimescolata come polenta nel grande circo barnum dell’immaginario collettivo, invece che esprimerli come risultato di una lenta, meditata riflessione personale.
Ricordo che nella scuola di una volta veniva raccomandato agli insegnanti di educare i propri allievi all’uso del pensiero critico come finalità fondamentale della loro formazione, mentre noto – non senza perplessità – che da qualche tempo si insiste più sul concetto di spendibilità sociale degli apprendimenti: nel primo caso lo studio enfatizza soprattutto il metodo, nel secondo privilegia i contenuti.
Ho sempre pensato che la cultura vera consista in un processo di interiorizzazione e di metabolizzazione del sapere che arricchiscono il cuore e la mente della persona, valorizzandone tutte le potenzialità individuali, oltre i risultati socialmente utili o economicamente soppesabili.
In occasione del mio incontro con la scienziata per la commemorazione presso l’Università di Pavia di Camillo Golgi – premio Nobel per la Medicina nel 1906 – la prof.ssa Montalcini (che aveva poi ricevuto lo stesso riconoscimento esattamente 80 anni dopo, nel 1986) nel corso della sua prolusione, parlando a braccio per oltre mezz’ora in perfetto inglese, aveva stupito tutti insistendo in modo coerente e articolato nel suo discorso sul concetto di “pensiero pensante” utilizzando più volte il termine “imagination”, per sottolineare che lo sforzo della ricerca, ma anche l’intuizione, la riflessione, il dubbio come forma di ripensamento (in sintonia con le teorie di Karl Popper), la stessa “fantasia” in quanto pensiero divergente (e qui mi piace ricordare che lo stesso Albert Einstein aveva sottolineato che a volte la fantasia è più importante della conoscenza) ha un valore tassonomico persino superiore alla stessa scienza codificata. Non vi è progresso scientifico infatti se le teorie consolidate non vengono continuamente sottoposte alla prassi della loro sistematica revisione alla luce del pensiero critico.
Ne deriva che l’educazione è umanizzazione, non addestramento, la cultura è comprensione che integra la mera conoscenza, non è il prodotto di un marketing commerciale: non si trova negli scaffali degli ipermercati né viene elargita attraverso corsi accelerati di formazione che rilasciano patentini di idoneità.
Trovo che siamo circondati da un desolante panorama di semplificazione culturale, dominato dall’uso disinibito e inconsapevole della parola e contraddistinto da una deriva di omologazione al relativo, al facile e al peggio.
Un utilizzo disinvolto delle nuove tecnologie ci illude sulla possibilità di una formazione culturale di tipo ‘fast-food’; il tempo destinato agli apprendimenti dev’essere reso rapido ed efficace, funzionale alla produttività degli apparati e alle logiche del profitto piuttosto che al radicamento dei valori della civiltà dell’umanesimo: centralità della persona, sua dignità, rispetto per gli altri.
Oltre il mandato educativo strettamente affidato alla scuola, credo nella formazione come conquista personale, esercizio della libertà di pensiero, capacità critica e motivata di digressione, dissociazione dagli standard che riducono la cultura ad un bene di consumo distribuito da affabulatori e ciarlatani per far circolare parole e immagini finalizzati a renderci uguali, docili e ubbidienti.
Scriveva Max Weber, già all’inizio del Novecento, che la ‘razionalizzazione’, cioè l’ottimizzazione delle potenzialità intellettuali dell’uomo, “non è la progressiva conoscenza generale delle condizioni di vita che ci circondano”.
La vera razionalizzazione consiste invece nel “disincantamento del mondo”, in altri termini nella consapevolezza che attraverso la ragione e il pensiero si stabiliscono e si applicano le regole che ci permettono di conoscere la realtà, partendo sempre dal nostro punto di osservazione.
E’ più utile, cioè, rafforzare le nostre personali dotazioni strumentali – l’intelligenza e il carattere – che possedere una dimensione quantitativamente estesa della conoscenza delle cose.
Ci si chiede spesso, in questa epoca di comunicazione globalizzata, se la libertà di informazione sia un valore sussistente e difendibile: la risposta non è semplice ma risiede nel rapporto che c’è tra il pensiero e la parola.
Se la seconda è il risultato di un ragionamento, la concretizzazione di un’idea, se esprime un concetto chiaro a chi la pronuncia e al suo interlocutore, allora ‘parlare’ significa favorire la comunicazione e il dialogo tra le persone.
Prevale oggi la teoria della democrazia della parola: più cose si dicono o si riescono a dire, più tavole rotonde si imbandiscono, più circolano notizie e informazioni, nel più breve tempo possibile e più – di conseguenza – dovremmo rafforzare la nostra percezione di essere uomini liberi.
Si finisce così con il parlare molto, con il parlare tutti, con il parlare sempre, senza domandarci cosa alla fine resti di questo grande fervore del dire.
Ma se il pensiero – cioè la riflessione, la consapevolezza, la comprensione – giace inerte e silente, se non precede ciò che si dice o non vaglia in modo critico ciò che si ascolta, la parola resta un’inebriante e spesso insensata anestesia collettiva che ci illude su una realtà che non esiste.
Resta quella che i latini chiamavano con somma saggezza “flatus vocis”: una inutile, eterea e a volte fastidiosa e stancante emissione di fiato.
Per chi parla e per chi in qualche modo è costretto ad ascoltare.