Sostegno, ci vuole un salto di qualità: sì alla cattedra inclusiva, un prof (preparato) per tutta la classe

di Andrea Gavosto,  Il Corriere della sera

La proposta della Fondazione Agnelli che ha partecipato alla sperimentazione di questa nuova impostazione: i risultati sono stati incoraggianti per tutti gli studenti

Lo stato di salute del sistema di inclusione scolastica in Italia non è buono. Non nei principi, che restano fra i più avanzati per un paese civile: “un nuovo modo di concepire e attuare la scuola per accogliere ogni bambino e adolescente per favorire il suo sviluppo personale”, scriveva la Senatrice Franca Falcucci nel 1975 dando vita all’integrazione scolastica dei disabili. A non funzionare oggi è la pratica quotidiana, che spesso non ha la qualità attesa né sempre riesce a dare sostanza ai principi: c’è ben poca inclusione, ad esempio, quando un allievo disabile è fuori dalla sua classe con il docente di sostegno. Questa insoddisfacente qualità dipende soprattutto da due fattori: (i) un modello organizzativo che mostra la corda di fronte alle crescenti dimensioni e complessità dei compiti di inclusione della scuola; (ii) una carenza di formazione dei docenti: di quelli di sostegno, ma – se si vuole superare l’impasse – di tutti i docenti.

Docenti di sostegno e classi

La scuola italiana non si occupa solo degli allievi disabili certificati – quasi 338.000 lo scorso anno scolastico – in base al cui numero vengono assegnati i docenti di sostegno. Si badi, però: assegnati «alla classe», non «all’allievo disabile», per collaborare con gli altri docenti nella sua inclusione e nell’aiuto a tutti gli studenti; di fatto, spesso è solo il docente di sostegno a occuparsi dello studente certificato. L’inclusione riguarda, infatti, anche un numero almeno altrettanto ampio di studenti con Dsa (Disturbi Specifici dell’Apprendimento: dislessia, disortografia, discalculia, ecc.), per le difficoltà dei quali non è previsto il sostegno, ma un progetto personalizzato, con misure compensative e dispensative, che è responsabilità di tutti i docenti; non di rado, invece, è il solo insegnante di sostegno a occuparsene. E, infine, l’inclusione riguarda decine di migliaia di altri studenti con disagi scolastici legati a fattori socioeconomici e culturali (come la non conoscenza della lingua) o a difficoltà comportamentali.

La crescita delle richieste

Negli ultimi 15 anni In Italia si è cercato di fare fronte alla crescita delle dimensioni e della molteplicità degli interventi in un solo modo: aumentando i docenti di sostegno. L’anno scorso erano 238.000 e saranno di più quest’anno, proprio perché il loro numero è determinato da quello, sempre crescente, degli allievi disabili. Ma ciò va a danno della qualità: cresce, infatti, anche il numero di chi non è qualificato a questo difficile compito. Come ci ricorda l’Istat, circa la metà dei docenti di sostegno non è di ruolo e perciò spesso costretto ogni anno a cambiare scuola, con effetti disastrosi sulla continuità didattica: forse la prima preoccupazione di ogni genitore, figuriamoci di chi ha un figlio disabile. Ancora più grave è che i 2/3 dei docenti precari di sostegno non abbiano l’abilitazione, che si ottiene superando un corso di formazione specifica (Tfa). Anche quando vi è la dedizione, mancano le competenze. Questo perché per anni – in assenza di finanziamenti pubblici adeguati – le università hanno attivato un numero di Tfa per il sostegno insufficiente al bisogno; inoltre, i corsi sono soprattutto negli atenei nel Sud, mentre la carenza di docenti di sostegno qualificati è molto più grave al Nord.

Cambiare il modello

Un recente focus fotografa bene i numeri di questo paradosso. Il primo passo sarebbe, dunque, dare formazione specifica a tutti i docenti di sostegno e farli restare nella stessa classe per tutto il ciclo, anche se non di ruolo. La ministra Fedeli a suo tempo propose la conferma di anno in anno sul medesimo posto del docente di sostegno precario che ha fatto bene. Non se ne fece nulla. Pare che il ministro Valditara voglia riprenderla: sarebbe un utile progresso. Ma non basterebbe. Perché è il modello didattico e organizzativo che va cambiato, facendolo progredire.
Come? Innanzitutto, avendo il coraggio di superare la netta separazione fra l’insegnante di sostegno, concentrato sugli allievi «speciali» e isolato dal resto delle attività di classe, e gli altri docenti, poco o nulla coinvolti nelle azioni inclusive, anche perché spesso privi delle pur minime competenze richieste, che invece credo dovrebbero obbligatoriamente avere. In questo senso va l’importante proposta di «cattedra inclusiva», presentata di recente da un gruppo di docenti ed esperti, fra cui Dario Ianes: formazione all’inclusione per tutti i docenti e una strutturata integrazione dei ruoli negli insegnamenti disciplinari e nelle pratiche inclusive. E nella stessa direzione andava la sperimentazione in Trentino promossa da Fondazione Agnelli, Iprase e dallo stesso Ianes 10 anni fa in 17 classi primarie e medie con la finalità di (i) dare a tutti i docenti una formazione di base in pedagogia speciale e didattica inclusiva; (ii) accompagnarli con tutor specializzati; (ii) corresponsabilizzare e coinvolgere ogni docente nelle pratiche quotidiane dell’inclusione, (iii) rivalutare il ruolo del docente di sostegno, come risorsa di classe, co-docente ed esperto di didattica

inclusiva: una prospettiva, dunque, opposta a quella che lo confina al solo alunno con disabilità.

La sperimentazione

La sperimentazione, durata due anni, ha beneficiato di una rigorosa valutazione d’impatto, con esiti incoraggianti, soprattutto per la crescita nei livelli di autonomia, di responsabilità e di interazione con il resto della classe degli allievi con disabilità, che hanno inoltre fatto progressi sul piano degli apprendimenti, mentre quelli degli altri allievi non ne hanno risentito. Anzi, tutti sono progrediti nella predisposizione allo studio. È da proposte ed esperienze come le due citate che si dovrebbe partire per un salto di qualità dell’inclusione scolastica. Non è un percorso facile, ovviamente, e incontrerà molte diffidenze. Innanzitutto, dalle stesse famiglie degli allievi disabili, che alla presenza esclusiva del docente di sostegno spesso si aggrappano. Ma è l’unica l’alternativa che vedo per andare avanti, invece di tornare indietro alle plumbee classi differenziali del secolo scorso.

Andrea Gavosto è Direttore della Fondazione Agnelli

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