Tania Convertini: ‘Mettere il pensiero critico al centro’. Intervista all’autrice de ‘L’ABC di Alberto Manzi, maestro degli italiani’

da tuttoscuola.com
di Barbara Riccardi

Poco prima delle vacanze natalizie, ho avuto il piacere di incontrare, nella libreria polivalente Anicia, Tania Convertini, arrivata in Italia per presentare il suo libro “L’ABC di Alberto Manzi, maestro degli italiani“. L’opera, pubblicata in occasione del centenario della nascita di Manzi, celebra la figura dell’educatore, noto al grande pubblico per la trasmissione RAI Non è mai troppo tardi.

Mi spiega che il suo libro non vuole essere un trattato accademico, ma un libro accessibile, agile, inclusivo, ricco di storie e aneddoti, un libro per tutti. È frutto di una ricerca documentale durata cinque anni, durante i quali ha raccolto idee, consultato materiali, tra cui scritti, appunti, documenti e video conservati presso il Centro Manzi e RAI Teche, oltre a testimonianze orali di familiari, ex alunni della scuola “Fratelli Bandiera” e collaboratori del maestro. Il tutto per comprendere a fondo il maestro, il suo metodo di insegnamento, ma soprattutto i valori che lo hanno guidato.

Mi piace pensare ad Anicia come luogo degli incontri casuali di senso. Oltre ad essere una casa editrice dal 1985, è una libreria indipendente, nonché ente di formazione nel campo pedagogico-didattico, filosofico, psicologico, delle scienze umane e sociali. Tra i suoi autori si annoverano importanti pedagogisti e studiosi italiani e stranieri, tra cui la professoressa Tania Convertini, che, entrata nella scuola italiana nelle vesti di maestra, diventa poi docente al Dartmouth College negli Stati Uniti. La Convertini è nota, in particolare, per i suoi studi sulla pedagogia interculturale e digitale, in cui l’educazione acquista valore come mezzo di cambiamento sociale.

Cosa ha catturato il suo interesse per il maestro Alberto Manzi, quando e perché?

Sono entrata in contatto per la prima volta con Alberto Manzi grazie a un video di ‘Non è mai troppo tardi’, per la precisione il video in cui il maestro con grandissima umanità dimostrava come un gruppo di anziani, provenienti dal paese di Allumiere, invitati in studio per l’occasione, avevano appreso a leggere e scrivere. Mi ero imbattuta nel video per caso nel preparare una lezione per i miei studenti sul ruolo della televisione nell’unificazione della lingua. Sono rimasta folgorata da Manzi, dal maestro, dal comunicatore, ma soprattutto dall’umanista. Ciò che mi ha colpito profondamente al di là delle tecniche di comunicazione televisiva e delle sue innegabili abilità didattiche, era il profondo rispetto che ogni suo gesto esibiva. Gli spettatori a casa, il suo pubblico di analfabeti, non erano mai trattati con condiscendenza o paternalismo. Al contrario, Manzi mostrava un’intima partecipazione alla loro condizione, un’empatia profonda, visibile, sincera e trasparente. Era animato e guidato da valori che mettevano sempre la persona e la sua crescita al centro. Per lui, leggere e scrivere non erano semplici competenze, ma strumenti di libertà e cittadinanza. Grazie alla RAI e al programma che gli fu affidato, riuscì a raggiungere un vasto pubblico, offrendo a moltissime persone nuove opportunità. Eppure, non se ne attribuì mai il merito. Fu lui stesso a definirsi un ‘pupazzo televisivo’, sostenendo che il vero merito fosse dei duemila maestri nominati dal Ministero della Pubblica Istruzione, che nei punti di ascolto, con il supporto della RAI (che forniva apparecchi televisivi ed eserciziari), insegnavano a leggere e scrivere, stimolando il piacere e il desiderio di imparare”.

Perché la scelta dell’alfabeto come organizzazione del libro?

“Mi sono chiesta a lungo che struttura dare a questo libro. Avevo pensato a un’intervista impossibile ma si sarebbe rivelata una responsabilità eccessiva dare voce a Manzi che ha lasciato tante e chiare indicazioni di pensiero pedagogico. Un’altra soluzione che avevo preso in esame era strutturare il libro come una giornata in classe, affrontandone le varie parti e raccontandone così i vari momenti. L’alfabetiere mi è parso, tuttavia, il miglior metodo per mettere ordine nel materiale che avevo raccolto rendendo omaggio, al tempo stesso, a uno dei principi cardine di Manzi: il suo credo nell’alfabetizzazione come chiave per accedere alle libertà individuali e sociali. La vera sfida è stata dare spazio a tutte le parole necessarie per restituire un’immagine di Manzi a 360 gradi, senza trascurare nessuna delle idee che continuavano a bussare alla porta, chiedendomi di entrare. Anche se molte di queste idee non compaiono esplicitamente nella lista delle parole incluse, sono ampiamente sviluppate e discusse nel contesto delle altre. Dalla A di ‘Accesso’ alla C di ‘Curiosità’, dalla G di ‘Gioco’ alla T di ‘Tensione cognitiva’, fino alla Z di ‘Zitti’, il libro è ricco di esempi pratici, narrazioni, aneddoti e testimonianze che si intrecciano in un racconto che non esclude niente e nessuno.  E per non dimenticare che la lettura è un’azione attiva e partecipativa, anche il lettore è invitato a generare le proprie parole dell’alfabeto valoriale e ad aggiungerle in uno spazio dedicato del libro”.

Quanto ritrova in lei di Alberto Manzi?

“Moltissimo. La mia matrice come insegnante di scuola primaria è sempre presente e mi assiste nel condurre un insegnamento attivo. Ricordo distintamente i miei anni alla primaria in cui con i miei giovanissimi alunni, compilavamo in classe il diario di bordo o andavamo all’aperto ad annusare la pioggia per poi scrivere una poesia ispirati dall’esperienza, o etichettavamo l’intera scuola con parole inglesi ad indicare i nomi di door, window, office, classroom ecc. Ricordo anche il ruolo del dirigente scolastico che mi ha sempre sostenuto anche quando qualche genitore si lamentava perché il figlio si era ammalato sotto la pioggia. Queste esperienze di insegnamento attivo non hanno mai smesso di ispirarmi. Il programma di lingua che dirigo a Dartmouth è improntato su un apprendimento di tipo laboratoriale, profondamente centrato sull’esperienza. I nostri studenti imparano l’italiano come lingua straniera utilizzando le strutture linguistiche per parlare di temi che sono importanti per loro, per farsi domande su ciò che è rilevante. Utilizziamo le tecniche del design thinking, promuoviamo l’empatia, e la costruzione della comunità attraverso l’apprendimento. Non è raro vedere le nostre classi imparare all’aperto o fare lezione in un museo, ma anche aiutarsi a vicenda in gruppi di abilità miste. Invitiamo gli studenti a condividere in classe un loro problema e a mettersi nei panni degli altri, proponendo delle soluzioni, parliamo di attualità, leggiamo i giornali, ci facciamo domande. La lingua diventa così un mezzo per comunicare e sentire insieme ‘per conoscere meglio il mondo e noi stessi’ per usare le parole di Manzi”.

In che modo sono toccati dall’esperienza di apprendimento i suoi studenti? Come si raccontano?

“La maggior parte di loro rimane profondamente toccata dalle esperienze fatte nelle classi di italiano. Ciò che ricordano più nitidamente è l’idea di cura e di comunità. Molti studenti partecipano al programma a Roma per perfezionare la lingua. Vivono in famiglia per la durata dell’intero trimestre, viaggiano sui mezzi pubblici romani (già una sfida culturale non da poco), vivono la città e la comunità romana e comprendono così quanto sia importante il rapporto tra persona, città e comunità. Le attività che proponiamo spingono gli studenti fuori dalla loro confort zone, permettendo loro di entrare in contatto con una nuova realtà culturale e linguistica. Ogni giorno presenta nuove sfide e conquiste linguistiche e culturali. Dalle lezioni nelle piazze, nei musei, sulle terrazze romane, agli incontri con artisti, artigiani, e comunità locali; dai nuovi amici conosciuti in palestra fino alle semplici esperienze quotidiane come fare la fila dal panettiere, la loro esperienza in Italia si carica di un valore interculturale e personale che porteranno con sé per anni a venire. È comune restare in contatto con loro, avere notizie dei loro studi e delle loro carriere e ricevere racconti di come l’italiano continui ad essere parte della loro vita, di come parlare un’altra lingua, navigare un’altra cultura abbia operato una trasformazione e li abbia arricchiti come persone. Tra i tanti ricordi, ce n’è uno che mi è particolarmente caro. Anni fa regalai a una studentessa, per la quale la permanenza a Roma presentava gravi sfide e difficoltà, un cartoncino con l’iconico timbro di Manzi “Fa quel che può. Quel che non può non fa”. Era un promemoria di pazienza e incoraggiamento che per lei si rivelò illuminante. Quella frase divenne il suo mantra e le permise di darsi il tempo necessario per crescere. Il programma fu un grandissimo successo per lei e sono sicura che Manzi le è rimasto nel cuore”.

Si parla molto di Intelligenza artificiale in questo periodo. Qual è il ruolo del docente, dello studente e di AI nelle sue lezioni?

“Direi che l’approccio che propongo è molto manziano. Bisogna mettere il pensiero critico al centro. L’intelligenza artificiale è uno strumento di cui dobbiamo rimanere in controllo e per questo è fondamentale conoscerla e sapere come usarla, quali sono i rischi e quali i benefici. I ruoli di docente e studente non sono dissimili da quelli che immaginiamo idealmente in qualunque rapporto educativo. Non va sottovalutata la necessità di alfabetizzare. Se siamo d’accordo sul bisogno di un’alfabetizzazione linguistica, visiva, digitale, mediatica, occorre ora pensare a strumenti per alfabetizzare all’intelligenza Artificiale perché il rischio di subire ciò che non conosciamo è sempre alto.
Per dirla con le parole di Manzi: ‘Educare a pensare’”.

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